Radici Cristiane (gennaio 2011, n. 61) dedica un dossier molto interessante all’anniversario che lo Stato, nel sostanziale disinteresse dei cittadini, si accinge a celebrare. Le bugie, anche quelle della storiografia ufficiale, hanno le gambe corte, ragion per cui la popolazione non si è mai riconosciuta, in 150 anni a questa parte, nelle favole che ci fanno studiare a scuola. Colpisce, soprattutto, l’insensibilità umana di chi salta a pie’ pari sui morti, sulle torture, sui campi di concentramento dove perirono migliaia di soldati borbonici. Colpevoli soltanto di aver voluto rimanere fedeli al loro re. Quando uno Stato non ha il coraggio, la dignità di chinarsi sugli sconfitti, non avrà mai la stima dei cittadini. È la nemesi della storia.Messina e Civitella del Tronto. Poi, Fenestrelle…
Mentre Gaeta diveniva una prigione, altre due fortezze borboniche continuarono le ostilità: Messina, che si sarebbe arresa solo il 14 marzo, a un mese dalla caduta di Gaeta, e Civitella del Tronto, che avrebbe ammainato la bandiera biancogigliata (ma senza consegnarla) il 20 marzo. Per i combattenti si aprirono varie strade: darsi al brigantaggio e cercare di restaurare con la guerriglia quel regno che non erano stati capaci di difendere con la guerra regolare; passare al nemico oppure affrontare la carcerazione, magari nel forte di Fenestrelle, praticamente un gulag, per le condizioni terribili in cui i prigionieri venivano tenuti. Almeno 24.000 deportati borbonici (ma si parla di 40.000) vennero trattati come bestie: senza pagliericci, senza coperte, senza luce; addirittura, in una zona dove la temperatura d’inverno era quasi sempre sotto lo zero, vennero smontati i vetri e gli infissi per rieducare i prigionieri col freddo. La liberazione avveniva perlopiù con la morte e, non sapendo dove seppellire il gran numero di deceduti, si procedeva a discioglierli nella calce viva in una grande vasca: una morte senza onore, senza tombe, senza lapidi e senza ricordo, affinché non restassero tracce dei misfatti compiuti. Non a caso si è parlato dei “lager dei Savoia”: del resto, una scritta accoglieva i prigionieri ammonendo “Ognuno vale non in quanto è, ma in quanto produce” (in tedesco suonerebbe “Arbeit macht frei”).
Luigi Vinciguerra
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