Una prosa, nata quasi per caso, che stenta a farsi strada.
Ed è passato mezzo millennio
Dopo essere stato imprigionato e
aver patito la tortura, nell’esilio di San Casciano (obbligo di dimora, diremmo
oggi), trastullandosi all’osteria nel pomeriggio, vestendo i panni curiali
quando a sera si dedicava allo studio, lì per lì non ebbe contezza di quello
che stava creando. La prosa italiana, come osservò Francesco De Sanctis, nasce
così, quasi non cercata, liberata dalle parole “ampullose” per consentire al
periodo di fluire agile, semplice, efficace, come un sillogismo aristotelico.
Di questo nuovo discorrere aveva bisogno Machiavelli mentre rifletteva sui
destini dell’Italia e sulla storia. Storia vista come costanti che si ripetono
nel tempo, sul presupposto che l’uomo è sempre lo stesso, portato al male, anzi
nella convinzione di una umanità che commetterà il male non appena e
ogniqualvolta ne avrà occasione. Un paio di secoli più tardi, Robespierre
proromperà in un empito dal contenuto assai diverso: “Ogni istituzione che non
considera il popolo come buono è difettosa”. No, dice il Machiavelli, prendiamo
l’uomo per quello che è, con i suoi limiti, con i suoi difetti, e cerchiamo di
costruire uno Stato che li annulli entrambi, o che almeno li circoscriva. Non
rinuncia agli ideali il grande fiorentino, non rinuncia alla enorme eredità
lasciataci dalla cultura classica, specie romana (“i miei Romani” amava dire),
una cultura che avverte ancora viva, ancora attuale, tuttora proponibile. La
sua mentalità antistoricistica gli consente di muoversi tra Romolo e Numa
Pompilo, Valerio Corvino, Alessandro Magno e Cesare Borgia come se agissero
tutti insieme sullo scenario stupendo e drammatico che è l’esperienza umana. Ma,
a distanza di mezzo millennio, le parole “ampullose” persistono nella
produzione libraria italiana. Prendiamo lo studio del diritto. Nelle nostre
università sono (o erano) in uso manuali mal scritti, vergati con uno stile
pesante, poco comprensibile, provincialotto. Niente a che vedere con il limpido
argomentare di Gaio, che con le sue Institutiones, in un latino sobrio e al
tempo stesso solenne, ci ha lasciato un’opera dallo straordinario valore
scientifico. Da noi, invece, vige il principio, provincialotto, per l’appunto,
che per essere importanti bisogna esporre aria fritta, incomprensibile. La ricerca
della frase fatuo-barocca, anche in politica, nasconde a malapena il vuoto
pneumatico. E la cultura, al pari della politica, affonda.
Giacinto Zappacosta
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