lunedì 9 novembre 2015

MACHIAVELLI, LA PROSA ITALIANA E ALTRE COSUCCE

Una prosa, nata quasi per caso, che stenta a farsi strada. Ed è passato mezzo millennio


Dopo essere stato imprigionato e aver patito la tortura, nell’esilio di San Casciano (obbligo di dimora, diremmo oggi), trastullandosi all’osteria nel pomeriggio, vestendo i panni curiali quando a sera si dedicava allo studio, lì per lì non ebbe contezza di quello che stava creando. La prosa italiana, come osservò Francesco De Sanctis, nasce così, quasi non cercata, liberata dalle parole “ampullose” per consentire al periodo di fluire agile, semplice, efficace, come un sillogismo aristotelico. Di questo nuovo discorrere aveva bisogno Machiavelli mentre rifletteva sui destini dell’Italia e sulla storia. Storia vista come costanti che si ripetono nel tempo, sul presupposto che l’uomo è sempre lo stesso, portato al male, anzi nella convinzione di una umanità che commetterà il male non appena e ogniqualvolta ne avrà occasione. Un paio di secoli più tardi, Robespierre proromperà in un empito dal contenuto assai diverso: “Ogni istituzione che non considera il popolo come buono è difettosa”. No, dice il Machiavelli, prendiamo l’uomo per quello che è, con i suoi limiti, con i suoi difetti, e cerchiamo di costruire uno Stato che li annulli entrambi, o che almeno li circoscriva. Non rinuncia agli ideali il grande fiorentino, non rinuncia alla enorme eredità lasciataci dalla cultura classica, specie romana (“i miei Romani” amava dire), una cultura che avverte ancora viva, ancora attuale, tuttora proponibile. La sua mentalità antistoricistica gli consente di muoversi tra Romolo e Numa Pompilo, Valerio Corvino, Alessandro Magno e Cesare Borgia come se agissero tutti insieme sullo scenario stupendo e drammatico che è l’esperienza umana. Ma, a distanza di mezzo millennio, le parole “ampullose” persistono nella produzione libraria italiana. Prendiamo lo studio del diritto. Nelle nostre università sono (o erano) in uso manuali mal scritti, vergati con uno stile pesante, poco comprensibile, provincialotto. Niente a che vedere con il limpido argomentare di Gaio, che con le sue Institutiones, in un latino sobrio e al tempo stesso solenne, ci ha lasciato un’opera dallo straordinario valore scientifico. Da noi, invece, vige il principio, provincialotto, per l’appunto, che per essere importanti bisogna esporre aria fritta, incomprensibile. La ricerca della frase fatuo-barocca, anche in politica, nasconde a malapena il vuoto pneumatico. E la cultura, al pari della politica, affonda.

Giacinto Zappacosta

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