domenica 22 gennaio 2012

Fatta l’Italia, raccontiamo la vera storia agli italiani

di Marco INVERNIZZI
tratto da: Tempi, 2.9.2009


A centocinquant’anni dall’unità non c’è ancora un’identità condivisa. Le difficoltà odierne ad affrontare le questioni cattoliche e federalista.


Bisogna farsene una ragione: celebrare il 150° anniversario dell’unità d’Italia nel 2011 sarà un problema, anzi lo è già adesso. E non tanto per i ritardi del governo nel preparare le celebrazioni, o per il fatto che il comitato di garanti risulta costituito in parte dal governo Prodi e in parte dal successivo guidato da Berlusconi, con le inevitabili divisioni. Il vero problema è che non esiste un’identità italiana condivisa, non soltanto nella classe politica come ha scritto Ernesto Galli della Loggia, ma nel paese, a cominciare dagli intellettuali.

Preso atto della realtà, non si deve disfare l’Italia, anzi. Bisogna pazientemente ritornare indietro nel tempo, ricercare i motivi di questa mancanza, individuare e curare le ferite e le amnesie che hanno accompagnato la nostra storia nazionale unitaria. Cominciamo dalle amnesie.

L’Italia non nasce nel 1861, proprio perché anche precedentemente non era soltanto un’«espressione geografica», ma un insieme di popoli diversi eppure uniti da una cultura condivisa. Non si possono dimenticare le radici che affondano nella civiltà romana e anche prima, l’esito culturale e civile della prima evangelizzazione cristiana che dà vita alla ricchezza dell’epoca medioevale, la straordinaria e complessa produzione artistica dei secoli dell’Umanesimo e del Barocco. Sarebbe riprodurre una frattura artificiale volere insistere su celebrazioni “rivoluzionarie”, che dimentichino la nostra storia precedente il 1861.

Ma non si possono dimenticare neppure le insorgenze antinapoleoniche che hanno visto le popolazioni di ogni regione italiana opporsi con la forza all’imposizione di una cultura rivoluzionaria durante il dominio napoleonico, dall’invasione francese del 1794 alla sconfitta definitiva di Napoleone nel 1815. Così come non si deve dimenticare il 18 aprile 1948, quando l’Italia moderata e cattolica ha espresso a larga maggioranza la volontà di appartenere a una civiltà cristiana e occidentale: eppure, come ha scritto l’insospettabile Pietro Scoppola, questo evento, che segna la nascita dell’Italia moderna, non è mai stato celebrato dagli stessi vincitori.

Ma ci sono anche le ferite, non dobbiamo dimenticarlo.

L’Italia diventa uno Stato unitario attraverso una violenza che colpisce la Chiesa cattolica. Quando un sacerdote, un padre di famiglia, un maestro o un professore che si ritengono cristiani raccontano la storia della loro nazione non possono nascondere questa ferita originaria. Una ferita che è stata sanata giuridicamente nel 1929 con il Concordato, che era già stata risolta politicamente nel 1913 con il Patto Gentiloni, quando i cattolici cominciarono a votare alle elezioni politiche dopo il ‘non expedit’, ma che rimane dal punto di vista culturale perché, come scriveva Augusto Del Noce, se un popolo non possiede una ricostruzione unitaria della propria storia non potrà essere veramente unito.

E se questa ricostruzione unitaria non veniva tentata durante l’epoca delle ideologie (se non attraverso una ricostruzione di impronta marxista o azionista) appunto a causa delle divisioni che avrebbe prodotto, oggi non viene affrontata perché quasi nessuno se ne preoccupa veramente. Con qualche eccezione.

La prima eccezione viene dal mondo della Lega. Esso rappresenta (con toni e modalità non sempre adeguati e comprensibili) coloro che furono sconfitti nel processo risorgimentale perché proponevano una soluzione federalista dell’unificazione italiana. Ossia non volevano uno Stato centralista, sul modello francese, che invece venne scelto e imposto con la violenza dai vincitori.

Questa è l’altra grande ferita dopo la “questione cattolica” che pesa sulla storia italiana: la “questione federalista”. Grandi cattolici come il beato Antonio Rosmini l’avevano proposta, ma anche intellettuali “laici” come Carlo Cattaneo; non vennero ascoltati e così il rifiuto di una soluzione federalista, che avrebbe rispettato le peculiarità delle diverse popolazioni italiane, comportò fra l’altro quella guerra civile nel Sud d’Italia che costò 10 mila morti nel decennio 1860-1870 e segnò l’inizio della “questione meridionale”.

Scorciatoie ideologiche

L’altra importante eccezione riguarda il movimento cattolico italiano. Seppure con diverse sfumature e proposte, esso continua ad avere a cuore l’italianità e a coltivarne le radici. Anzitutto ricordando “tutta” la storia della nazione, comprese le insorgenze e il 18 aprile 1948 che tutti (anche i cattolici quando sono stati al governo, purtroppo) hanno volutamente dimenticato o vituperato.

Il mondo cattolico non ha coltivato “sogni” antiunitari neppure nei tempi dell’intransigente «opposizione cattolica», come la definiva Giovanni Spadolini riferendosi al periodo dell’Opera dei Congressi (1874-1904), ma non può smettere di raccontare la verità storica. Quando tace, quando smette di dire la verità, perde la propria identità e diventa insipido.

Le ferite ci sono e non si possono nascondere. Bisogna affrontarle e cercare di medicarle, usando i toni adatti a un progetto di riconciliazione fra tutti i vinti e vincitori della lunga storia italiana. Ma un progetto che non sacrifichi nessun aspetto della verità storica e non cerchi di cavarsela attraverso la proposizione di scorciatoie ideologiche che non convincono più nessuno, si chiamino pure Risorgimento, Resistenza o unità antifascista.

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