Un “inedito” Mazzini.
Una valutazione del Medio Evo che non ti aspetti
Chi scrive d’arte corre
il rischio di creare a sua volta un’opera d’arte. Non era questo l’intento di
Mazzini quando, appena ventunenne, ebbe a cimentarsi con Dante Alighieri, il
sommo poeta, colui che “mostrò ciò che potéa la lingua nostra” (Boccaccio), ma
anche il vate, l’ ”uomo libero, spirato dai Numi a mostrare agli uomini la verità sotto il
velo dell’allegoria”. Il saggio, pubblicato nel 1837, ha
già nel titolo un chiaro riferimento a quella idealità che attribuisce alla
letteratura una valenza pedagogica, civile, morale. Senza tanti giri di parole:
politica. “Dell’amor patrio di Dante” è un’opera fondamentale che riveste i crismi
dell’arte, un’opera nella quale la bellezza stilistica (“eloquente come la
tempesta” fu la felice definizione, come noto, del principe di Metternich, uno
che a sua volta capiva di arte e di cultura) si fonde con una robusta
conoscenza della storia, antica e contemporanea, e con una familiarità
interiorizzata (e parliamo tutto sommato di un ragazzino) nei riguardi di un
poeta impegnativo come Dante. Che andrebbe studiato di più nelle scuole di ogni
ordine e grado. Lo dico da anti-risorgimentale: Mazzini, per profondità di
contenuti e facilità di linguaggio, merita un posto di tutto rispetto nella
critica dantesca, non fosse altro che per la sua capacità di farti innamorare
dell’altissimo poeta, cosa che, tra l’altro, capitò a Giovanni Ruffini, frequentatore e amico del letterato genovese. Il saggio su Dante,
dunque, con le sue rapide pennellate a farti intendere l’epoca nella quale “menò la dolorosa sua
vita” il grande fiorentino. “Tutti gli elementi, che creano la miseria, o
la felicità delle nazioni s’agitavano nel suo seno. Una somma energia, un
valore indomito, una insofferenza di giogo, una irrequieta fecondità nel
formare progetti, una feroce costanza nel superare gli ostacoli, che
s’attraversavano, stavano a contrasto con una rabbia di dominazione, con una
smania di sovvertimento, con una intemperanza d’audacia, col più violento
spirito di vendetta, colla brutalità più sfrenata. Sublimi virtù, e grandi
delitti, uomini d’altissimi sensi, e scellerati profondi segnan quel secolo,
come ne’ climi, ove la natura è più feconda, giganteggian gl’opposti del bello,
e dell’orrido”. E va oltre: “Con
questa sovrabbondanza di forza, l’Italia avrebbe potuto fondare in quel secolo
la sua indipendenza contro l’insulto straniero”. Con pochi tratti, con
felici sintesi, eccoti tutto un senso di un’epoca, con i drammi e le sue
esaltazioni, con le sue (diremmo oggi) formidabili potenzialità. Ma c’è di più:
da un rivoluzionario massonico ti aspetteresti la scontata e avvilente silloge
che vede nell’evo di mezzo il luogo geometrico di tutte le nefandezze e le
turpitudini. Mazzini, anche in questo, mostra un’autonomia di pensiero rispetto
ai tanti diffusi pregiudizi tuttora imperanti. Gli sfugge, per la verità, che
Dante è tale perché cristiano, perché uomo di fede, perché credente, gli
sfugge, di più, “l’intima energia” (per usare sue parole spese in altro luogo)
costituita dal cristianesimo nell’ambito nazionale, soprattutto, ed europeo. A
intender questo vi sono i limiti, non dell’uomo, ma di una ideologia dichiaratamente
anti-cristiana. Sullo sfondo storico, lo stile sobrio, essenziale, mai lezioso
del Nostro pone la figura gigantesca di Dante, il fustigatore dei costumi, di
una Patria neghittosa, di una Firenze nella quale non si riconosce. Non citato,
sembra farsi spazio, nello sviluppo del discorso, il Machiavelli, con quel suo
rimprovero a Dante per le parole troppo dure nei confronti della sua città, la
piccola patria troppo spesso sgridata. Si incontrano così in tre, in quelle
stupende righe: l’autore dei Discorsi, il maggiore poeta e l’intellettuale
ligure, e sembrano dar vita ad un dialogo, ad un confronto nel quale il Mazzini
prende le difese di Dante nei confronti di quella delicata e rispettosa accusa
mossagli dal segretario della Seconda Cancelleria. Ne vengono fuori idee e toni
di alto profilo. Soprattutto, emerge, chiara, l’importanza dell’idioma italiano,
quel volgare eloquio che, nell’insegnamento dantesco “non aveva nessun limite, ma si facea bello di ciò, ch’ era migliore in
ogni dialetto”, l’idea, insomma, che dovremmo riscoprire, di un’Italia nata
su solide basi culturali.
Giacinto Zappacosta
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