Le
scaturigini di un fenomeno difficile da estirpare. Il problema della
individuazione del dies a quo
Si chiamava Luigi
Viola. Nato a Galatina nel 1851, studiò presso la locale scuola degli Scolopi,
laureandosi poi in Lettere a Napoli. Su segnalazione di Luigi Settembrini,
insegnò nel liceo di Maddaloni. Dopo aver vinto il primo concorso bandito dal
Ministero della Pubblica Istruzione per l’accesso alla Scuola Archeologica
Italiana, Viola si trasferisce in Grecia, dove fa le sue prime esperienze come
archeologo. Giunge infine a Taranto nel 1880, in qualità di Vice-Ispettore, con
l’incarico di condurre un’esplorazione topografica sulla città vecchia. Sposa
Caterina Cacace, figlia di Carlo Cacace, un personaggio emergente nella vita
economica e sociale della Taranto dell’epoca. “Negli anni ottanta, il Cacace,
già allora noto e facoltoso imprenditore, avendo intuito che il Borgo si
sarebbe sviluppato nei pressi del costruendo Arsenale, aveva acquistato dal
Comune moltissimi suoli agricoli a prezzi irrisori. Al momento opportuno,
quando la richiesta di nuove abitazioni divenne fortissima, li rivendette a
prezzi alti, ricavandone ingenti guadagni. Un ulteriore vantaggio veniva al
Cacace dal particolare tipo di contratto che stipulava al momento della
vendita: una clausola gli rivendicava la proprietà di eventuali reperti
archeologici trovati nel sottosuolo” (A. Conte, I signori del piccone, Taranto 1987). Per maggiore intelligenza,
vale la pena aggiungere qualche spiegazione. Il Borgo, come si chiamava allora
e come viene denominato tuttora, è l’immensa area, al di fuori della città
vecchia (che ora è un’isola), dove, subito dopo l’unità d’Italia, prese piede
uno sviluppo edilizio di notevoli dimensioni (in media, in un anno, venivano
costruiti 5.000 appartamenti), spesso caotico, per non dire selvaggio. Unico
risvolto positivo fu nel superamento dell’idea di una città ristretta
all’interno delle antiche mura, con consequenziale grave sovraffollamento, la
città fortezza ormai superata dalla storia. E dunque “Taranto è un immenso
cantiere; ovunque si scava, si spala, si livella, si portano alla luce resti
preziosi per la lettura della topografia e della storia; purtroppo questi
resti, molto spesso, risultano d’intralcio ai lavori in corso e, senza
esitazione, si distruggono o si lasciano sotterra o si vendono quando è
possibile” (G. Peluso, Storia di Taranto,
Taranto 2005). Questo per quanto attiene il Cacace. E tanto basti. Torniamo al
genero, al professor Viola, che intanto prosegue nella sua attività di
archeologo. Dopo aver raccolto reperti in quantità notevole, previo accordo col
Comune di Taranto, il solerte funzionario individua una idonea sede, per la
conservazione degli stessi, nell’ex convento sito in corso Umberto, l’embrione
dell’attuale Museo Nazionale, istituito per decreto reale del 3 aprile 1883
sotto la direzione dello stesso Viola, “che continua a lavorare con impegno
anche se con discutibile deontologia professionale” (G. Peluso, op.cit.).
“Personaggio emblematico, certamente utile per la comprensione della vita
culturale, politica e sociale della Taranto di fine secolo, ma anche per le
attività sottobanco legate al mercato antiquario” (A. Conte,op. cit..).
L’attività di archeologo del Viola termina nel 1898, per dimissioni
dall’incarico. A quel punto, lo sbocco naturale è negli affari e nella carriera
politica, nell’uno come nell’altro caso con esiti miserevoli.
Mentre lo sviluppo
edilizio della città prosegue senza sosta, nel 1883 cominciano i lavori per la
creazione del canale navigabile, la via d’acqua che, ancora oggi, prospiciente
il castello aragonese e scesa Vasto, mette in comunicazione il Mar Grande, cioè
il mare aperto, col Mar Piccolo, vale a dire quell’estremo lembo del Golfo di
Taranto che, in due seni, si estende tra
i quartieri della città. Più di un anno dopo ebbero inizio i lavori per la
costruzione del ponte, poi sostituito con quello attuale, il famoso ponte
girevole, che collegava il centro storico al Borgo. Anche in questo caso, come
ovvio, lavori di sbancamento in un’area dalla notevole stratificazione storica.
“ Durante gli scavi si demolivano […] tutti gli avanzi di antiche costruzioni
fra’ quali pochissimi di valore archeologico” (S. Magno, Il canale navigabile e il ponte girevole in ferro, Napoli 1898). Il
racconto del Magno, troppo benevolo, lascia solo intuire le devastazioni e il
saccheggio dei reperti nel bel mezzo di quella che era l’acropoli della πόλις.
Da notare che le operazioni di scavo avvennero con l’assistenza del Viola,
all’epoca direttore del Museo di Taranto. Il che contribuisce a far capire con
che approssimazione, per non dire altro, si valutasse l’impatto sull’immenso
patrimonio storico-archeologico affiorante ad ogni picconata. In questa logica,
l’abbattimento dell’antica porta Lecce è un mero corollario. Sia detto solo per
inciso, e a dimostrazione dell’approccio, da parte dello Stato unitario, nei
confronti delle realtà locali, e del fastidio col quale la classe dirigente
guardava alle testimonianze del passato, medesima sorte, anche se con minori
danni, toccò alla città di Cremona, dove vennero abbattute frettolosamente
“porta Milano” (così ancora oggi i Cremonesi chiamano l’attuale piazza
Risorgimento) e porta Romana, che per la verità non davano fastidio a nessuno,
nonché, cosa assai più grave, la chiesa di San Domenico, ubicata in quella che
adesso si chiama piazza Roma. In quest’ultimo caso, si superò ogni limite:
l’edificio, bisognoso di semplice restauro, fu sbrigativamente raso al suolo
più per scelta ideologica, come emerge dal breve ma intenso dibattito a margine
della decisione, che per una qualsivoglia plausibile motivazione. Le ossa dei
morti sepolti nella chiesa, tra i quali i resti di Antonio Stradivari, furono
disperse assieme al materiale edile. E non fu l’unico atto di delirio
anticlericale consumato a Cremona.
Ma riprendiamo il filo
del discorso sulla città ionica. Nel 1884, cioè lo stesso anno in cui si
costruisce il già citato ponte, comincia la costruzione dell’Arsenale.
“L’Arsenale era cascato nella necropoli tarantina, ed ogni giorno nuovi
sepolcri si aprivano al sole. A volte erano piccole tombe di bimbi, o rustiche
di servi: il che valeva per indizio che più oltre stavano certo quelle dei
maggiori ed erano lunghe e spaziose, coperte da due lastre di carparo ben
squadrate” (G.C. Viola, Pater, Taranto 1986). “Chi dirà mai
quali e quanti tesori del glorioso passato sono andati perduti per ignoranza,
incuria, ma soprattutto per lucro?” (G. Peluso, op. cit.). “Molto diffuso era
il fenomeno della vendita di contrabbando di materiale archeologico, che
solitamente si svolgeva nei negozi di antiquariato, presenti un po’ dappertutto
nella città vecchia. Il più fornito era quello di Vito Panzera, ubicato nella
centralissima Strada Maggiore” (A. Conte, op. cit.). “In questo locale si
effettuava la compravendita di oggetti, talora veramente preziosi, per i quali
il Ministero era nella impossibilità economica di far valere il suo diritto di
prelazione” (G. Peluso, op. cit.).
Affarismo rampante,
insensibilità nei riguardi delle vestigia storiche e della propria terra. Siamo
all’indomani dell’unità d’Italia, quando la nuova classe dirigente, liberale e
massonica, anticlericale, coniuga il patriottismo, quello imposto dalle
baionette e dagli stupri dei bersaglieri, nonché da Garibaldi e dai suoi
“pendagli da forca”, come lo stesso generale definì i Mille, al dispiegarsi,
senza limiti e ritegni, dell’interesse personale e di casta. Nasce appunto,
come si evince dagli epifenomeni evidenziati, la figura del borghese affarista,
quello che si muove con passo tutt’altro che felpato, ma che può comunque fare
affidamento sulla fitta rete di amici piazzati al posto giusto per ogni dove. Per
ogni malefatta c’è un accomodamento, e in fin dei conti c’è lo Stato che chiude
un occhio. Quando non li chiude tutti e due. L’humus ideale per il proliferare
della speculazione edilizia, accompagnata dal sacco del territorio e dal
massacro della eredità storica. D’altra parte, al di là delle brume della
storiografia ufficiale, la figura del Garibaldi, la cui spedizione nel Sud si
assume essere lo spartiacque tra un presunto ritardo meridionale (negato però
dall’evidenza dei dati macroeconomici) e l’inizio di un riscatto, almeno in
potenza, segna piuttosto quel connubio tra la politica, tra la gestione della
cosa pubblica e l’arricchimento personale. Trafficante di schiavi e ladro di
bestiame in sud America, Garibaldi attinse largamente, una volta entrato in
Napoli, alle ricchezze dell’ormai conquistato Regno delle Due Sicilie, per
riversarle a favore dei figli, i quali le utilizzarono, dopo il 20 settembre
1870, dando l’avvio alla speculazione edilizia nella città di Roma. E il
cerchio si chiude. Il malaffare, in forme mai conosciute prima, unifica dunque la Penisola completando l’opera dei “fratelli
liberatori”. I quali, a Napoli, avviarono, specie in occasione del plebiscito,
quel rapporto organico e perverso con la camorra di Tore ‘e Crescenzo. Montanelli
aveva ragione: l’Italia è figlia del risorgimento.
Giacinto Zappacosta
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