La ricerca, costante,
tende inesorabilmente alla frase ridondante, caotica, iper-barocca, lunga, con
incisi estesi al punto da annullare la proposizione principale. I nostri
critici letterari, nella presentazione o prefazione di un libro, e comunque
nello scrivere di letteratura, non riescono a liberarsi da quell’idea, un po’
provincialotta, che per accostarsi ad un autore sia giocoforza imbastire un
rincorrersi di immagini imbrogliate (mi verrebbe da dire: de-semplicizzate), di
orpelli, di inutili complicazioni. Spostando solo un attimo il discorso, ma a
conferma di quello che vado esplicitando, non potrò mai dimenticare il
colossale manuale di diritto amministrativo scritto da Massimo Severo Giannini,
nel quale, ad un certo punto, si chiude una parentesi e, senza soluzione di
continuità, se ne apre un’altra. Nemmeno in algebra esiste un passaggio del
genere, né si sono spinti a tanto i futuristi. Che differenza con le
Institutiones di Gaio. E si tratta del diritto col quale i Romani governarono
il mondo. Tornando a noi, se l’arte è intuizione pura (Croce, De Sanctis),
vorrei aggiungere, e non suoni banale, “semplice”, se la letteratura, in
particolare, è espressione di una civiltà, anima di una Nazione, alta forma
educativa per un popolo (Mazzini), allora perché nascondere una produzione
artistica nelle nebbie del fatuo? Perché isterilire un autore presentandolo con
una pesantezza di toni che non trasmette niente? Ecco un esempio: “L’origine propriamente fisica di Usher e di
Lady Madeline si perde nelle ramificazioni – e qui, come sempre, è assai facile
distinguere il puro valore di rabesco che quelle informa nel racconto- d’una
genealogia complicata di squilibrati, dove la definizione non ha nulla di
patologico né, comunque, alcun riferimento a un fatto contingente, ma solo
denota la direzione in cui andrebbe ricercata l’intimità della loro natura”.
Vogliamo provare a dirlo in altro modo? “L’autore
(si tratta di Edgar Allan Poe) proietta i personaggi e se stesso, quale
narratore, in una dimensione dominata dallo squilibrio interiore: ne scaturisce
una narrazione fantastica, fatta di immagini irreali, o surreali, fiabesche, a
volte poetiche”. Ci vuole tanto?
Giacinto
Zappacosta
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