Sarà vuoto, fatuo, inconsistente,
mero esercizio letterario, come nel giudizio, forse eccessivo, di Benedetto
Croce, ma il saggio di Francesco Patrizi, a quasi mezzo millennio dalla sua
pubblicazione, affascina la mente del lettore. Il titolo rimanda alla retorica
(Della retorica dieci dialoghi, nelli quali si favella dell’arte oratoria con
ragioni repugnanti all’openione che intorno a quella hebbero gli antichi
scrittori), ma il contenuto va oltre, fino ad abbracciare una visione della
storia e, in fin dei conti, dell’animo umano. Un libro ricco di spunti,
elegante come solo la cultura italiana riesce ad essere, scritto da un autore ignorato dai più. “A Roma regnando
i re non si nomò verun oratore, e scacciati loro, e preso gli Ottimi lo Stato,
non vi fu uopo d’oratori. Ma poi che salì il popolo al reggimento, sursero gli
oratori a farsi sentire, e grandi”. L’inciso, l’omaggio a quella grandezza,
viene fuori currenti calamo, quasi inavvertito, insostituibile presupposto del
Rinascimento. Ridotta all’osso, la lezione del Patrizi è assai semplice: la
retorica, a persuadere o a eccitare gli animi, regna in quegli ordinamenti dove
la norma è in divenire, o dove le regole sono venute meno o faticano ad
affermarsi; dove invece le leggi, le norme, i precetti sono stabiliti, ecco che
si fa luogo, senza spendita di capacità oratorie, ad un sillogismo, ad un
pronunciamento da applicarsi al caso concreto. Verrebbe da aggiungere, ma il
tema specifico è estraneo alla disamina del Patrizi: beate quelle epoche e
quelle civiltà che hanno in sé, come nel caso del diritto romano, capacità
adattative, autorevolezza di contenuti che sfidano il tempo e i perigli della
storia.
Giacinto Zappacosta
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