Ibam forte via sacra,
ut mihi mos est. Contestualizzato, suona così: me ne stavo sereno e tranquillo,
per grazia di Dio e per volontà della nazione, beato nella mia solitudine, la
mia splendida solitudine, passeggiando per piazza Rossetti. Guardavo distrattamente
la gente che passava, i miei concittadini intenti nelle più varie attività: chi
portava per mano il nipotino, chi chiacchierava amabilmente col vicino di
panchina, chi parlava da solo (ci sono anche questi), chi sembrava molto
indaffarato, chi si sforzava di esserlo, chi, arringando un gruppetto di
ascoltatori, teneva concione in puro dialetto (di Santa Maria, ma comprensibile
anche da quelli che gravitano attorno al campanile di San Pietro, o a ciò che
ne rimane). La giornata era splendida, godibile, il cielo terso, il vento,
nient’affatto fastidioso, accarezzava la testa di Gabriele Rossetti, il poeta
che dà il nome alla nostra piazza, la piazza per antonomasia, almeno nel
discorrere di noi vecchi Vastesi. Mentre già pensavo e mi convincevo di essere
nel migliore dei mondi possibili, ecco che si profila all’orizzonte chi non
avrei mai voluto vedere. Indovinato? Il rompicoglioni. Il suo approccio è
appiccicoso, a tratti untuoso, senz’altro insopportabile. Cerco una via di
fuga, un commodus discessus: invano. Ora, tra i tanti difetti del rompicoglioni
c’è quello di parlare di tutto, con falsa competenza, una competenza
inversamente proporzionale al fiume di parole riversato su di me, il
malcapitato di turno. Non c’è verso di scrollarselo di dosso, ti si attacca
come la cozza allo scoglio. Non capisce che non lo sopporto, o forse lo capisce
e ci prova gusto, insiste, prevarica, rompe l’anima. Ha una teoria su tutto,
conosce, così dice, vita, morte e miracoli del genere umano, risalendo fino a
sette generazioni. Provo ad aprire bocca per dire la mia: macché, meglio
rinunciare, meglio rassegnarsi e fingere di ascoltarlo. Intanto la piazza si
svuota. È ora di pranzo, ma non per lo scocciatore.
Giacinto Zappacosta
(riproduzione vietata)
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