Quando governo e scuola andavano d’accordo
“Donato Acciaiuoli, cittadino
fiorentino, governando la Repubblica attese alla filosofia, e filosofando
governò la Repubblica”. È l’umanesimo, specie fiorentino, con i suoi ideali
civili e culturali, immortalato con felice espressione da Angelo Segni nella
“Vita di Donato Acciaiuoli”. La filosofia, qui intesa in senso lato come
cultura, che si mette al servizio dello Stato e della comunità civile, un
sapere inteso quale presupposto del buon governo. Emerge una concezione della
politica alta, troppo alta per noi, una idealità nella quale istruzione e
amministrazione della res publica sono termini embricati, strettamente connessi,
espressione di una realtà unica e indivisa. Tanto che quando Niccolò della Luna
fu costretto a ritirarsi in convento a seguito di un sommovimento politico, “le
lettere” gli furono di un conforto pressoché trascurabile. Qui viene in mente
Niccolò Machiavelli, al quale i trastulli d’osteria e gli studi (e che studi)
non fecero dimenticare la perdita dell’incarico pubblico. Non tutti, come
ovvio, condividevano questa impostazione, come nel caso di Cristoforo Landino, semplicemente
contento della sua scuola.
Comunque, non aveva spazio,
come è al tempo presente, il cretino di turno secondo il quale l’uomo di
cultura è buono a correggere gli appunti del capo. C’è stata un’epoca
felicissima della nostra storia patria, il Quattrocento e il Cinquecento, per
l’appunto, in cui il sapere, potremmo dire mutuando da situazioni a noi più
vicine, era al potere. A Firenze, il che è significativo, all’interno del
Palazzo della Signoria si decideva, senza il soccorso di una commissione di
esperti, come siamo avvezzi a fare a nostri giorni, quale fosse il miglior
bozzetto o il miglior progetto in vista dell’ennesima opera che di lì a breve
avrebbe abbellito la città. Il politico, cioè, era uomo di lettere, o comunque
la cultura albergava nelle stanze del potere. A dire il vero, fino a qualche tempo fa ero
portato a ritenere l’Umanesimo e il Rinascimento come una mera contrapposizione
al medioevo cristiano, prima tappa quindi di quella scristianizzazione che
perdura. Non consideravo, e me ne sto rendendo conto solo ora, le contraddizioni
tutte interne ad un’epoca difficilmente riconducibile sotto un’unica idea
fondante. Epoca nella quale la scuola, evidentemente, faceva la sua parte (basti
citare Vittorino da Feltre). A proposito di scuola, la scuola italiana di oggi,
gira sotto traccia una notizia, non ripresa dalle televisioni e dai giornali a
grande diffusione, che rappresenta l’ennesimo atto auto-lesionistico di un
mondo, quello dell’educazione pubblica, stretto tra fatuità di sentimenti ed
eccellenze, che pure ci sono. Per inciso, lo dico con la mia mentalità di
monaco amanuense, dobbiamo ringraziare face book che consente agli utenti di
aggiornarsi a vicenda. La letteratura italiana, dunque, viene sfoltita,
alleggerita, privata, tra gli altri, di Quasimodo e Silone. Qualcuno suggerisce
che, trattandosi esclusivamente di autori meridionali, il disegno rientri nel “politicamente
corretto-nord-filoleghista”. Può essere, e secondo me è proprio così. Certo,
condannare all’oblio una parte consistente del nostro patrimonio letterario è
una indecenza, una di quelle indecenze che lentamente uccidono.
Giacinto Zappacosta
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