La bruttura in versione
‘Milano da bere’
Lo rispetto, non lo
canto e non mi piace. Lo abbia scritto o meno Goffredo Mameli, ed in effetti c’è
chi argomenta per l’ipotesi negativa, il canto degli Italiani, musicato da
Michele Novaro, è il precipitato del risorgimento, quel processo storico che i
politici ci hanno imposto di festeggiare quattro anni fa. Comunque sia, in
astratto, la bellezza e il fascino di un inno nazionale, di qualsiasi inno,
risiedono nella immutabilità della esecuzione e nelle variegate emozioni,
sempre nuove, che suscitano negli animi. Almeno così dovrebbe essere. Da noi, in
Italia, è diverso. Sono i miracoli del nuovo sogno italiano, la palingenesi che
tutto trasforma e abbellisce. La licenza, quella mancanza di sensibilità, di
rispetto delle regole, quella sciatta faciloneria, quella propensione al
cambiamento, in peggio, tutto questo ti produce l’inimmaginabile. Bush figlio,
quando era presidente, respinse la proposta di una versione in lingua spagnola
dell’inno nazionale. Gli Ispanici devono cantarlo in inglese, perché l’inno è
nato così. Questa la risposta. Passi dunque per la melodia, rivista e corretta
in versione ‘Milano da bere’, o ‘Milano che te la dà a bere’, ma spingersi fino
alla rivisitazione del testo mi pare un sacrilegio. L’inno è inno,
perfettamente uguale a se stesso nel tempo e nello spazio, specie se eseguito
in un contesto di rilievo internazionale. Io, superato e sconfitto dalla
storia, straniero in una patria nella quale non mi riconosco, difendo l’inno
nella sacralità della sua esecuzione. La rincorsa alla novità, finalizzata a se
stessa, o al mero stupore, non mi piace. L’assurdo è che sono proprio io a dire
queste cose.
Giacinto Zappacosta
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