mercoledì 29 giugno 2016

La maledizione pronunciata da Miglio, la cultura classica, la nostra civiltà, la nostra tradizione




Ricordo ancora le parole di Gianfranco Miglio (Dio lo abbia in gloria), ideologo della Lega, naturalmente portato a riversare sulla testa dei Meridionali torrenti di improperi e di cattiverie. Meridionali, è bene rimarcarlo, che sono l’unica etnia al modo non protetta dal “politicamente corretto”, popolazione da un secolo e mezzo senza dignità e, sostanzialmente, senza autentica rappresentanza. Voglio essere chiaro su questo punto: se decido di criticare i negri, gli Ebrei o i musulmani (dico solo per ipotesi), so già in partenza che lo devo fare in un certo modo, so che devo limitarmi, ricondurre il discorso entro canoni imposti dalla invisibile dittatura massmediatica, conscio che ogni deragliamento mi costerà una reazione compatta e massiccia, distruttiva direi, ad opera della cultura dominante. Al contrario, chi insorgerebbe se il leghista di turno, o chi per lui, ci indicasse (parlo di chi vive a sud del Tronto) come popolo antropologicamente inferiore? Nessuno: è già successo mille volte (vedi le sparate di Aldo Cazzullo) e succederà ancora, non sappiamo per quanto tempo. Il bello è che non ci ribelliamo, noi, i diretti interessati, adusi a chinare la testa e a ingoiare i rospi. Miglio, dunque, con i suoi assiomi, se non altro di una chiarezza senza pari. “Su che cosa è basata la civiltà classica? Sul concetto che l’uomo di rispetto vive alle spalle altrui. È la società mediterranea, così diversa dalla nostra. Chi è Odisseo? È uno che vive rubando”. Così il grande leghista, che esternava al di là e contro la legge Mancino sulla repressione dell’odio razziale, valida, appunto, a tutela di tutti, ma con una sola eccezione. Ne emerge una civiltà, quella greco-romana, vista come il male assoluto, la negazione di Dio. E parliamo di una cultura che ha dato all’umanità Numa Pompilio, Virgilio, Cesare Augusto, Seneca, Platone, Aristotile, Eschilo, Sofocle ed Euripide. Mi piace aggiunge all’elenco, ampiamente incompleto, Leonida di Taranto, l’esule cantore della sua patria, sconosciuto quanto geniale poeta greco. Allora, abbiamo studiato tutti invano? Abbiamo imprecato inutilmente sui testi greci e latini che non riuscivamo a rendere in italiano? Sono state infruttuose le alzatacce per rifinire la preparazione in vista dell’interrogazione? Di più, ci dobbiamo vergognare delle nostre tradizioni, di quello che siamo, di noi stessi?
Provo a ragionare sulla maledizione proferita da Miglio. Roma, innanzi tutto. Come ha osservato Machiavelli, fiorentino (“i miei Romani” amava dire), quello che l’ignoranza collettiva riconnette al detto (inesistente) “il fine giustifica i mezzi”, in ogni società ci sono due “umori”, cioè i “grandi” che vogliono “oppressare” il popolo e il popolo che non vuole essere “oppressato”. Questo, ovviamente, vale anche per la Roma antica, ammette il grande scrittore. Quindi nessuna seria lettura storica può negare che anche in riva al Tevere esistessero contrasti sociali (vogliamo dire “lotta di classe”?), con tutto un corollario di ingiustizie. Dove però il genio romano intervenne fu nella creazione del tribunato della plebe, a tutela di quello che oggi chiameremmo il proletariato, e soprattutto nella scelta da parte degli ottimati, dimostratasi decisiva per la grandezza di Roma, di non chiudersi in un rozzo spirito di casta. Al di là di questo, l’ambizione dei singoli, specie se nobili, doveva passare attraverso i campi di battaglia: chi sopravviveva poteva poi sperare di comandare e di imporsi. Altro che vivere alle spalle altrui, caro Miglio. Non dimentichiamo che i consoli, all’inizio dell’età repubblicana entrambi patrizi, combattevano alla testa dei loro eserciti. Lo stesso Giulio Cesare, una cinquantina di anni prima di Cristo, in un’epica battaglia, combatté contro i pompeiani corpo a corpo. Altro punto: il “ladro” Odisseo. Nell’Odissea c’è tutto: il gusto per l’avventura, la nostalgia per la patria lontana, l’affetto coniugale e filiale, la difesa della propria famiglia e della propria casa che sfocia nella vendetta più cruenta, il senso sacro dell’ospitalità. Persino l’affetto struggente tra un cane, Argo, e un uomo, Ulisse che rimette piede nella reggia, al momento sotto mentite spoglie. Miglio non ha apprezzato tutto questo. Noi studenti liceali sì. E siamo fieri di essere diversi da Miglio.

Giacinto Zappacosta

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