giovedì 16 febbraio 2017

RIFLESSIONI SUL LIMITARE DI UNA FOIBA

Insieme al sangue
Che irrorò l’ignuda terra
Ne uscì la cara vita
(Anonimo)

La contestualizzazione, la storicizzazione, che sfociano in un giustificazionismo buono per tutte le stagioni, sono l’ultimo approdo di una stanca propaganda. Qualche giorno fa, ho parlato con un esule istriano: nei suoi racconti, sobri, pacati, ho rivissuto il dramma di popolazioni vessate nell’indifferenza del mondo intero. Prima che sia troppo tardi, ascoltiamo le testimonianze di chi ha vissuto sulla propria pelle la tragedia di essere italiano ed inseriamole nella nostra coscienza collettiva. Senza pruriti ideologici, senza alzare disumani steccati. La morte, comune destino, va rispettata ed onorata, in ogni caso. In questi giorni, ho letto dichiarazioni di ogni tipo sulla vicenda storica delle foibe. Colpisce la difficoltà interiore di soffermarsi, cristianamente, a considerare le sofferenze dei nostri simili, quasi che un omaggio alle vittime possa ledere la nostra individuale dignità e credibilità politica, quasi che versare una lacrima per quei morti possa essere interpretato come una debolezza borghese. Eccoti, allora, di lato al negazionismo, ormai sempre più debole, prendere vigore la richiesta di valutare, o iper-valutare, il contesto storico, estrema frontiera, un po’ più sofisticata, per svilire il disvalore delle uccisioni sul limitare delle foibe. Come se i presupposti creati al di qua dell’Adriatico giustificassero gli accadimenti che hanno visto coinvolti i Giuliano-dalmati. In quel dramma, a volte miserevole, che chiamiamo storia, tutto è storicizzabile, tutto è inserito in un contesto creato dagli eventi precedenti e guidato dai fatti susseguenti, a volte da banali episodi secondari. Ma allora anche Hitler va letto in chiave storica, al pari di Stalin. La dottrina, che vorrebbe farsi largo tra gli animi, si traduce, in fin dei conti, in una cesura per cui i fatti riconducibili alla mia parte politica vanno esaminati alla luce della storia, mentre i misfatti dei miei nemici vanno condannati senza indugio. Non se ne esce altrimenti: se vogliamo ridare dignità a noi stessi, uomini e donne di questo millennio, dobbiamo recuperare una umanità che va disperdendosi in sterili dispute. Fra tutte le prese di posizione sull’argomento, ho apprezzato le parole dell’on. Maria Amato, mia avversaria politica, parole semplici, limpide, chiare. Riassumibili in quell’atteggiamento di ossequio di fronte alla morte. Sono frasi che, per il loro contenuto, senza eccessi e solenni al tempo stesso, ci richiamano, come comunità nazionale, alla esigenza, sempre più impellente, di ritrovarci attorno ad una memoria condivisa. Per parte mia, mi riconosco in quelle parole senza difficoltà. Mi piace pensare ad una Nazione che faccia riferimento a valori essenziali, non negoziabili, vorrei aggiungere, primi fra tutti quello della vita dei singoli membri che la compongono. Epperò, mi preoccupa quella puntigliosità di parte che affiora ad ogni anniversario, ad ogni data segnata in rosso sul calendario. È il precipitato storico di una guerra civile, sopita, ma mai cessata, combattuta dapprima con le armi e ora a mezzo di ostracismi e litigi infiniti. In più, mi fa specie che l’Italia non sappia riconoscere gli orrori commessi dai piemontesi e dai garibaldini all’atto della conquista del Sud, perché di conquista in effetti si tratta. È quella coscienza, del singolo prima ancora che comune, per cui i morti non si contano ma si pesano. Dopo tutto, è il succo del discorso imperante, cosa vale la vita di donne meridionali stuprate dai bersaglieri, che significato ha la vita di soldati napoletani deportati nei campi di concentramento del Nord? L’ho già scritto: sarebbe sufficiente che lo Stato italiano, per mano di chi incarna la più alta magistratura, depositasse un fiore nel forte di Fenestrelle. Non accadrà mai.

Giacinto Zappacosta


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