Non fu unità ma annessione. Una sporca e devastante guerra di conquista che nel giro di pochi mesi annientò una civiltà antica, depredò ed immiserì una terra felice e condannò alla disperazione ed all’esilio un intero popolo.
A Gaeta non hanno dimenticato quella tragedia, anzi, invocano a gran voce la verità e sono determinati nel chiedere rispetto per quanto la città subì con una ferocia inaudita durante il più tragico e sanguinoso degli assedi dell’era moderna.
Mentre Formia celebra e decora gli eredi dei massacratori dei suoi abitanti, Gaeta ne chiede la condanna morale e politica, esprimendo in ogni modo il dissenso verso un centocinquantenario che ricorda solo devastazione, dolore, disperazione. Ecco perché di festa non si tratta: sarebbe come uccidere per la seconda volta quella Gente.
A Gaeta il 6 novembre 2010, nella data dell’inizio dell’assedio piemontese, inizieranno ufficialmente una serie di manifestazioni con a tema “IO NON FESTEGGIO”, per ricordare gli effetti nefandi che causò la guerra di conquista scatenata dalla “setta” nel 1860 e per denunciare all’opinione pubblica le verità accuratamente nascoste dalla retorica risorgimentale.
In previsione di queste iniziative, il Comune di Gaeta attraverso il Sindaco e l’Assessore Antonio Ciano, ha così comunicato:
“Il 6 novembre inaugureremo, davanti alla Porta Carlo III, insieme ai rappresentanti di 40 Comuni del Sud eccidiati, un monumento in ricordo dei nostri Caduti.
La secessione leghista non ci interessa, ma interessano solo la giustizia e la verità di quello che i cosiddetti liberatori hanno fatto nelle nostre terre.
Non abbiamo nulla da festeggiare. E poi cosa c’è da festeggiare? L’emigrazione? L’impoverimento? L’imbarbarimento della società? Gli eccidi? Non c’è nessuna festa, ma solo un grande lutto!
Se Gheddafi ha ottenuto dallo Stato italiano miliardi di euro come risarcimento per il colonialismo nostrano, cosa dovrebbero chiedere allora gli abitanti del Sud? Intanto cominciamo a chiedere la verità, poi verrà anche il resto!”.
Con l’inaugurazione del monumento ai Caduti napoletani alla presenza dai rappresentanti di alcuni dei comuni devastati dalla soldataglia piemontese, sarà dato il via alle contromanifestazioni del centocinquantenario dell’Unità e si inizierà un itinerario storico che ricostruirà, mediante l’aiuto anche di dati economico-sociali, cosa è rappresentato per il Sud dell’Italia l’annessione al Piemonte.
Attraverso fonti inoppugnabili finalmente saranno rese pubbliche quelle atrocità commesse dall’Esercito piemontese, eufemisticamente chiamato “italiano”, in nome di un’unità falsa e truffaldina architettata ai danni di una popolazione pacifica che fu aggredita, derubata e sterminata senza pietà.
Per l’occasione saranno presenti anche i rappresentanti dei comuni di Casalduni e Pontelandolfo, le due città arse e rase al suolo dai Bersaglieri, con l’uccisione di massa degli abitanti e gli indescrivibili abusi perpetrati su donne e bambini. Fu proprio un bersagliere, Carlo Margolfo, che nel 1861 descrisse nei particolari la tragedia di Pontelandolfo: “Entrammo nel paese, subito abbiamo incominciato a fucilare i preti e gli uomini, quanti capitava, indi il soldato saccheggiava ed infine abbiamo dato l’incendio al paese abitato da circa 4500 abitanti. Quale desolazione, non si poteva stare d’intorno per il gran calore, e quale rumore facevano quei poveri diavoli che la sorte era di morire abbrustoliti e chi sotto le rovine delle case”.
Pagine tristi e tremende che la storia tende ancora a nascondere, ma che i documenti ufficiali dell’epoca descrivono con minuzia di particolari, come l’Osservatore Romano che nel 1863 scriveva: “Il governo piemontese che si vede presto costretto ad abbandonare il suolo napoletano, si vendica mettendo tutto a ferro e fuoco. Raccolti incendiati, provvigioni annientate, case demolite, mandrie sgozzate in massa. I piemontesi adoperano tutti i mezzi più orribili per togliere ogni risorsa al nemico, e finalmente arrivarono le fucilazioni! Si fucilarono senza distinzione i pacifici abitatori delle campagne, le donne e fino i fanciulli”.
A Gaeta il cannone tace da 150 anni, ma la battaglia in difesa della nostra cultura e della nostra dignità mai si è sopita e continua fiera nei cuori e nelle menti dei figli fedeli di una Terra che non vuole morire.
Cap. Alessandro Romano
da Rete di Informazione del Regno delle Due Sicilie
A Gaeta non hanno dimenticato quella tragedia, anzi, invocano a gran voce la verità e sono determinati nel chiedere rispetto per quanto la città subì con una ferocia inaudita durante il più tragico e sanguinoso degli assedi dell’era moderna.
Mentre Formia celebra e decora gli eredi dei massacratori dei suoi abitanti, Gaeta ne chiede la condanna morale e politica, esprimendo in ogni modo il dissenso verso un centocinquantenario che ricorda solo devastazione, dolore, disperazione. Ecco perché di festa non si tratta: sarebbe come uccidere per la seconda volta quella Gente.
A Gaeta il 6 novembre 2010, nella data dell’inizio dell’assedio piemontese, inizieranno ufficialmente una serie di manifestazioni con a tema “IO NON FESTEGGIO”, per ricordare gli effetti nefandi che causò la guerra di conquista scatenata dalla “setta” nel 1860 e per denunciare all’opinione pubblica le verità accuratamente nascoste dalla retorica risorgimentale.
In previsione di queste iniziative, il Comune di Gaeta attraverso il Sindaco e l’Assessore Antonio Ciano, ha così comunicato:
“Il 6 novembre inaugureremo, davanti alla Porta Carlo III, insieme ai rappresentanti di 40 Comuni del Sud eccidiati, un monumento in ricordo dei nostri Caduti.
La secessione leghista non ci interessa, ma interessano solo la giustizia e la verità di quello che i cosiddetti liberatori hanno fatto nelle nostre terre.
Non abbiamo nulla da festeggiare. E poi cosa c’è da festeggiare? L’emigrazione? L’impoverimento? L’imbarbarimento della società? Gli eccidi? Non c’è nessuna festa, ma solo un grande lutto!
Se Gheddafi ha ottenuto dallo Stato italiano miliardi di euro come risarcimento per il colonialismo nostrano, cosa dovrebbero chiedere allora gli abitanti del Sud? Intanto cominciamo a chiedere la verità, poi verrà anche il resto!”.
Con l’inaugurazione del monumento ai Caduti napoletani alla presenza dai rappresentanti di alcuni dei comuni devastati dalla soldataglia piemontese, sarà dato il via alle contromanifestazioni del centocinquantenario dell’Unità e si inizierà un itinerario storico che ricostruirà, mediante l’aiuto anche di dati economico-sociali, cosa è rappresentato per il Sud dell’Italia l’annessione al Piemonte.
Attraverso fonti inoppugnabili finalmente saranno rese pubbliche quelle atrocità commesse dall’Esercito piemontese, eufemisticamente chiamato “italiano”, in nome di un’unità falsa e truffaldina architettata ai danni di una popolazione pacifica che fu aggredita, derubata e sterminata senza pietà.
Per l’occasione saranno presenti anche i rappresentanti dei comuni di Casalduni e Pontelandolfo, le due città arse e rase al suolo dai Bersaglieri, con l’uccisione di massa degli abitanti e gli indescrivibili abusi perpetrati su donne e bambini. Fu proprio un bersagliere, Carlo Margolfo, che nel 1861 descrisse nei particolari la tragedia di Pontelandolfo: “Entrammo nel paese, subito abbiamo incominciato a fucilare i preti e gli uomini, quanti capitava, indi il soldato saccheggiava ed infine abbiamo dato l’incendio al paese abitato da circa 4500 abitanti. Quale desolazione, non si poteva stare d’intorno per il gran calore, e quale rumore facevano quei poveri diavoli che la sorte era di morire abbrustoliti e chi sotto le rovine delle case”.
Pagine tristi e tremende che la storia tende ancora a nascondere, ma che i documenti ufficiali dell’epoca descrivono con minuzia di particolari, come l’Osservatore Romano che nel 1863 scriveva: “Il governo piemontese che si vede presto costretto ad abbandonare il suolo napoletano, si vendica mettendo tutto a ferro e fuoco. Raccolti incendiati, provvigioni annientate, case demolite, mandrie sgozzate in massa. I piemontesi adoperano tutti i mezzi più orribili per togliere ogni risorsa al nemico, e finalmente arrivarono le fucilazioni! Si fucilarono senza distinzione i pacifici abitatori delle campagne, le donne e fino i fanciulli”.
A Gaeta il cannone tace da 150 anni, ma la battaglia in difesa della nostra cultura e della nostra dignità mai si è sopita e continua fiera nei cuori e nelle menti dei figli fedeli di una Terra che non vuole morire.
Cap. Alessandro Romano
da Rete di Informazione del Regno delle Due Sicilie
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