venerdì 5 novembre 2010

La prima carneficina mondiale

Antonio SOCCI
tratto da: Il Sabato, 5.11.1988, n. 45, p. 26-27


4 novembre 1918, settant'anni dopo. Ecco l'altra faccia di un conflitto che sconvolse l'Europa e costò all'Italia 600mila morti. Doveva essere una guerra lampo. Voluta dalla massoneria. Che puntava a distruggere l'Impero asburgico per edificare una nuova Società delle nazioni.


Nel novembre 1918 quando a Roma fu riaperto il Parlamento, il presidente del Consiglio recitò con enfasi i versi danteschi: "...secol si rinnova/ Torna giustizia e primo tempo umano". Parole tragicomiche. Sotto le macerie della Grande guerra, infatti, a esser morta era l'Europa. Nessun evento fulmineo aveva mai devastato l'ordine mondiale come questa guerra. Non si era mai visto nulla del genere.

A uscirne sconvolte non sono soltanto le carte geografiche. Nessuna guerra aveva contato i morti a milioni. Ma la novità non è solo questa macabra contabilità. L'essenza stessa della guerra è completamente stravolta.

Lo spiega in uno splendido libro edito dal Mulino, Eric J. Leed, Terra di nessuno. Esperienza bellica e identità personale. Il mostro bellico che si scatena fra il '14 e il '18 non ha più nulla in comune con le guerre napoleoniche, né con le guerre di fine Ottocento. E' la furia geometrica della meccanizzazione, della guerra tecnologica che esplode. Sconvolge tutte le vecchie tecniche militari, le strategie, i riti, la cultura bellica; produce nell'uomo stesso nuove angosce e devastazioni spirituali sconosciute, nevrosi inedite e incontrollabili: "La causa della nevrosi stava nel dominio dei materiali sulla possibilità di movimento del soldato... furono un prodotto diretto del rapporto sempre più alienante del combattente rispetto ai mezzi di distruzione".

Per un curioso paradosso la guerra fu accolta in molti ambienti europei come la possibile uscita dalla massificazione dell'età industriale, mentre essa fu, al contrario, proprio l'esaltazione di questo gigantesco dominio tecnologico sulle facoltà umane.

In Italia il cosiddetto diciannovismo, la ribollente smania collettiva, elettrizzata ed esaltata, diventa una categoria dello spirito e trova presto i suoi idoli tirannici. Da quelle trincee piene di fango, cadaveri, topi, gelo, paura e sterminio tecnologico, sul Carso come in Alsazia, i popoli d'Europa sono usciti devastati spiritualmente. Era una rivoluzione.

Tramonto d'Europa. Nessuno nel 1914 avrebbe mai immaginato che appena in quattro anni sarebbe stato spazzato come per un colpo di spugna, l'Impero asburgico, che era da tanti secoli il cuore d'Europa (sarebbe come pensare, oggi, di veder polverizzare gli Usa nel volgere di un anno).

Solo un'organizzazione, un po' fanfarona, un po' camorristica, andava predicando da anni la distruzione dell'Impero asburgico, ultimo segno dell'antica Europa cristiana. Era la massoneria, ed il suo sogno si avverò. E, com'è noto, all'ideale koiné di popoli europei raccolti nell'Impero, fu sostituito il laico edificio della Società delle nazioni, pensata e progettata puntigliosamente fin dal 28 giugno 1917 al Congresso delle massonerie dei Paesi alleati e neutrali di Parigi.


Anche l'attentato di Sarajevo, la scintilla che incendierà le polveri, com'è noto, emana un inconfondibile odore settario. Oggi pure alla Massoneria italiana piace amplificare un po' le sue gesta antiche. Così a settembre, a Torino, durante il convegno "La liberazione d'Italia nell'opera della Massoneria", organizzato dal Grande Oriente d'Italia, il relalore ufficiale, professor Aldo A. Mola, dichiara: "La massoneria aveva voluto la grande guerra perché riteneva suo compito storico la dissoluzione dell'Impero Asburgico". Non era una novità. Lord Palmerston, già Primo ministro di sua maestà britannica e gran burattinaio della massoneria anglosassone, lo aveva dichiarato già nel 1849.

Ma la polemica italiana sull'interventismo fu un caso a sé. Già nel 1950, il gran Maestro aggiunto di Palazzo Giustiniani, Guido Francocci, scriveva: "La massoneria italiana trovò l'energia necessaria per imporre al Governo e al parlamento, dopo averne convinto con intensa propaganda il popolo, la guerra contro gli imperi centrali, germanico e austro-ungarico, al fine di completare con l'ammissione di Trento e Trieste unità della patria".

Contadini e trincee. In realtà l'impresa si risolse in una vera tragedia per l'Italia: 600mila morti per ottenere contropartite territoriali che, secondo Giolitti, potevano essere ottenute pacificamente dall'Austria. Morti inutili. Doveva essere una guerra-lampo. Fu un'interminabile carneficina. "L'inutile strage", la definì il Papa, che ne morì di dolore.

A esser mandati al massacro, come sempre, furono i figli dell'Italia contadina. Nei loro casolari, nelle loro cascine, non erano mai arrivati né le scuole, né la corrente elettrica, né i medici, né i certificati elettorali (a cui non avevano diritto). Ma la cartolina di coscrizione obbligatoria arrivava dovunque, dal 1860.

I due partiti. Gli schieramenti che si contrappongono, interventisti contro neutralisti, segneranno il futuro politico del Paese.

Dalla parte del non-intervento troviamo: De Gasperi e i cattolici, Claudio Treves, Turati e i socialisti, ed infine Croce e Giolitti con i liberali. Interventisti saranno invece Gramsci, Mussolini (espulso per questo dal Partito socialista), Salvemini, la massoneria e -soprattutto- il mondo industriale e bancario laico che realizzerà con il conflitto speculazioni colossali, ritardando poi di molto la riconversione industriale (Fiat e Ansaldo sono le punte di diamante dell'industria bellica).

La borghesia laicista vedeva come fumo negli occhi la crescita dei movimenti socialista e cattolico. I suoi interessi si saldavano poi all'aspirazione rivoluzionaria della "scuola torinese". Scrive Del Noce: "Mussolini e Gobetti hanno in comune l'idea che la guerra debba sbocciare in una rivoluzione e in un rinnovamento radicale".

Si tratta di compiere finalmente la rivoluzione immanentista iniziata col Risorgimento e bloccata dall'era infame di Giolitti, colpevole di essere venuto a patti con la Chiesa e l'anima popolare del Paese.


Dall'interventismo nascono, ad un tempo, come gemelli, il fascismo e l'azionismo (che legherà personaggi come Salvemini, Gobetti, e i Rosselli).

Nel 1945 Augusto Monti (azionista) nel libro Realtà del Partito d'azione, descrive così le origini: "Interventismo, combattentismo, insoddisfazione del socialismo e della democrazia, antigiolittismo, smania di creare il partito nuovo". Si chiede Del Noce: "Qui siamo alle radici del fascismo. Partito d'azione o Partito fascista? E il Partito d'azione non sarà poi una nuova edizione del Partito fascista? E quegli uomini, che cosa li distingueva dal fascismo? Risponde il Monti stesso: "Fino al 1918 niente, nessuna distinzione fra i fascisti e quelli del movimento. Dal 1919, tutto". Figli entrambi de La Voce e di Gentile, la stessa anima, lo stesso sangue.

Quello che Gobetti contesta a Mussolini non è affatto il radicalismo totalitario. Al contrario: è il suo tradimento della rivoluzione, l'aver recuperato il giolittismo, il venire a patti con l'Italia plebea, cattolica e popolare.

Su La Rivoluzione liberale, il 9 ottobre del '23, Gobetti pubblica una pagina, oggi sconcertante: "Vogliono ammazzare il fascismo. Lo fecero servire per un anno a ricreare le fantasie, a ristorare gli spiriti, a satollare i corpi. Ora basta. Il fascismo ha una grave colpa: è ancora troppo intransigente, troppo serio per gli italiani; impone di credere a una parte politica e di prenderne le responsabilità... Ci sono troppi opportunisti: Baroncini e Farinacci sono uomini. Si può non veder chiaro nelle loro cooperative e nei loro affari, certo hanno continuato, ingigantito, il parassitismo rosso. Ma i veri affaristi sono quelli che godono gli stipendi a Roma fabbricando teorie. I veri affaristi sono gli intellettuali; non questi sani analfabeti che scrivono gli articoli sgrammaticati, ma sanno tenere la spada e il bastone in mano. Se un fascismo potrebbe avere per l'Italia qualche utilità, esso è il fascismo del manganello".

Così il fascismo diventa, per i gobettiani, l'esempio della rivoluzione tradita. Si produce fra gli interventisti una frattura analoga a quella avvenuta tra stalinisti e trotzkisti. Perciò Del Noce definisce "gli azionisti come i trotzkisti del fascismo". E aggiunge una suggestiva intuizione: "Il centrismo degasperiano del secondo dopoguerra è in fondo una rivincita (anche se provvisoria) dello schieramento neutralista".

C'è da chiedersi: i due schieramenti trasversali del '14 non si contrappongono forse ancor oggi, in Italia, come due anime sotterranee?

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