La peluria dei Sanniti e la coscienza pelosa di Bossi
Cominciò Charles Louis de Secondat, barone di Montesquieu. Gli fu sufficiente un rapido accenno nelle Lettere persiane, così almeno mi sembra di ricordare, quando fa dire a un suo personaggio, all’incirca: “Beati noi Francesi quando eravamo Galli e vivevamo nei boschi”. Il passo, critico e censorio, fa riferimento ovviamente alla romanizzazione di quella nazione che sarebbe diventata la consorella latina. Alla faccia della parentela. Però, cavolo, il barone sapeva leggere e scrivere. Al confronto, gli attuali propugnatori della civiltà celtica (non me ne voglia Bossi, ma io seguo la lezione cesariana che preferisce l’aggettivo “gallico” in luogo di “celtico”) sono saltimbanchi da festa di paese, utili a rallegrare le sagre, ma non a reggere un confronto culturale. Ogni tanto, devo dire, anch’io ho qualche vezzo di stampo pre-romano e mi metto a fantasticare sulla civiltà sannita, sulle sue peculiarità arcaiche.
Allora penso: meglio avrebbero fatto i padri dei padri, i Frentani, quel popolo che la koiné dell’ignoranza indica come gli abitanti di Lanciano, a rimanersene sulle cime dell’Appennino molisano, tra neve, boschi e pascoli, piuttosto che scendere a valle, verso il mare e una vita più agiata, se non altro da un punto di vista climatico. Poi mi passa l’uzzolo quando mi soffermo su quella strana abitudine sannita, limitata ai maschi, di radersi l’intero corpo: per me, l’uso del rasoio sul viso è già una tortura, figuriamoci se dovessi eliminare la peluria fino alle caviglie, soprattutto con quello che la natura ha posto a metà strada, un po’ sotto l’ombelico. Meglio romani e irsuti.
Giacinto Zappacosta
Continua…
riproduzione vietata
Cominciò Charles Louis de Secondat, barone di Montesquieu. Gli fu sufficiente un rapido accenno nelle Lettere persiane, così almeno mi sembra di ricordare, quando fa dire a un suo personaggio, all’incirca: “Beati noi Francesi quando eravamo Galli e vivevamo nei boschi”. Il passo, critico e censorio, fa riferimento ovviamente alla romanizzazione di quella nazione che sarebbe diventata la consorella latina. Alla faccia della parentela. Però, cavolo, il barone sapeva leggere e scrivere. Al confronto, gli attuali propugnatori della civiltà celtica (non me ne voglia Bossi, ma io seguo la lezione cesariana che preferisce l’aggettivo “gallico” in luogo di “celtico”) sono saltimbanchi da festa di paese, utili a rallegrare le sagre, ma non a reggere un confronto culturale. Ogni tanto, devo dire, anch’io ho qualche vezzo di stampo pre-romano e mi metto a fantasticare sulla civiltà sannita, sulle sue peculiarità arcaiche.
Allora penso: meglio avrebbero fatto i padri dei padri, i Frentani, quel popolo che la koiné dell’ignoranza indica come gli abitanti di Lanciano, a rimanersene sulle cime dell’Appennino molisano, tra neve, boschi e pascoli, piuttosto che scendere a valle, verso il mare e una vita più agiata, se non altro da un punto di vista climatico. Poi mi passa l’uzzolo quando mi soffermo su quella strana abitudine sannita, limitata ai maschi, di radersi l’intero corpo: per me, l’uso del rasoio sul viso è già una tortura, figuriamoci se dovessi eliminare la peluria fino alle caviglie, soprattutto con quello che la natura ha posto a metà strada, un po’ sotto l’ombelico. Meglio romani e irsuti.
Giacinto Zappacosta
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