La vulgata, nelle prime ore, ci
rappresentava quei morti come la volontà, tipica di una zona evoluta e
fortemente industrializzata, di andare avanti. Passata mezza giornata, la
propaganda massmediatica è venuta giù di botto, come quei capannoni, costruiti
di recente, ridotti ad un cumulo di macerie, tomba di operai del posto, ma
anche napoletani ed extra-comunitari. Abbiamo capito, senza possibilità di
errore, che quella “voglia di ricominciare” aveva nome, cognome e soprannome:
contratto di lavoro precario. Ossia, il terrore che quel rapporto di lavoro
periclitante divenisse carta straccia. Delle due l’una: o entro in fabbrica col
rischio di lasciarci le penne, o rischio il posto di lavoro. La magistratura,
che ha già aperto una inchiesta (“durerà a lungo”), dovrà dirci se quei
capannoni erano costruiti secondo la miglior scienza, da un lato, e dall’altro
se il rientro in fabbrica, dopo la prima violenta scossa, sia stata autorizzata
e da chi. Cupidigia di guadagno in capo a qualche imprenditore? Può essere. Certo
è che se il fatto fosse avvenuto a Napoli, la “voglia di ricominciare” sarebbe
stata giornalisticamente resa con espressioni del tipo “in un territorio
caratterizzato dal degrado e dall’assenza di tutele sindacali, sostituite dalla
presenza della camorra, che si insinua in ogni ganglo della vita produttiva,
abbiamo assistito a delle morti annunciate”. Sbaglio? E a proposito di Napoli:
scopriamo, e non ce ne rallegriamo, che le case di cartone, attribuite ad una
certa area geografica, fanno in realtà parte dell’intero paesaggio nazionale.
Nessun commento:
Posta un commento