giovedì 31 maggio 2012

QUEI CAPANNONI DI CARTONE E QUEI MORTI DI TROPPO



La vulgata, nelle prime ore, ci rappresentava quei morti come la volontà, tipica di una zona evoluta e fortemente industrializzata, di andare avanti. Passata mezza giornata, la propaganda massmediatica è venuta giù di botto, come quei capannoni, costruiti di recente, ridotti ad un cumulo di macerie, tomba di operai del posto, ma anche napoletani ed extra-comunitari. Abbiamo capito, senza possibilità di errore, che quella “voglia di ricominciare” aveva nome, cognome e soprannome: contratto di lavoro precario. Ossia, il terrore che quel rapporto di lavoro periclitante divenisse carta straccia. Delle due l’una: o entro in fabbrica col rischio di lasciarci le penne, o rischio il posto di lavoro. La magistratura, che ha già aperto una inchiesta (“durerà a lungo”), dovrà dirci se quei capannoni erano costruiti secondo la miglior scienza, da un lato, e dall’altro se il rientro in fabbrica, dopo la prima violenta scossa, sia stata autorizzata e da chi. Cupidigia di guadagno in capo a qualche imprenditore? Può essere. Certo è che se il fatto fosse avvenuto a Napoli, la “voglia di ricominciare” sarebbe stata giornalisticamente resa con espressioni del tipo “in un territorio caratterizzato dal degrado e dall’assenza di tutele sindacali, sostituite dalla presenza della camorra, che si insinua in ogni ganglo della vita produttiva, abbiamo assistito a delle morti annunciate”. Sbaglio? E a proposito di Napoli: scopriamo, e non ce ne rallegriamo, che le case di cartone, attribuite ad una certa area geografica, fanno in realtà parte dell’intero paesaggio nazionale.  

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