venerdì 1 giugno 2012

Piero BUCARELLI Gli anticomunisti mandati al macello



da Il Giornale 22.1.1995.

La consegna a Stalin dei russi della Wehrmacht prigionieri degli alleati 


Il problema dei russi in uniforme tedesca cominciò per gli "alleati" pochi giorni prima dello sbarco in Normandia. I servizi d'informazione fecero sapere che molte migliaia di russi presidiavano le coste prescelte. Che cosa farne? Il 8 maggio 1944 l'ambasciatore inglese suggerì al governo di Mosca di promettere un'amnistia agli arruolati per forza, escludendo i collaboratori volontari, le Waffen SS e altri "criminali". I reparti si sarebbero divisi, i comandi, sospettando di questi soldati, non avrebbero osato impiegarli, molti avrebbero disertato.

La risposta di Molotov riflette l'imbarazzo davanti all'esistenza di un dissenso armato di tali proporzioni. Un imbarazzo che durava ancora venticinque anni più tardi, se Rosario Romeo, dopo aver partecipato a Mosca a uno di quegli incontri tra storici italiani e sovietici su cui tanto contava la propaganda comunista, scrisse in questo giornale ("L'ombra di Vlasov", 10 giugno 1977) che «un fenomeno di collaborazionismo così esteso» poneva «un discorso assai delicato », e difatti era stato «portato avanti più nei corridoi del congresso che nel dibattito pubblico...».

Traditori? Risponde Solgenitsin: «Non si sarebbero mai arruolati nella Wermacht, se non fossero stati spinti dalla disperazione, se non avessero provato un odio inestinguibile contro il regime sovietico». Russi coi tedeschi? Il loro numero era insignificante, rispose Molotov, il problema non esisteva, non c'era alcuna ragione di far le promesse che Londra suggeriva. Il regime aveva trovato la soluzione: intanto negare che esistessero e, appena possibile, riprendersi i dissidenti e farli sparire.

Nei primi giorni dell'invasione della Francia, i poveri diavoli caddero prigionieri a migliaia. Il 20 luglio 1944, Eden informò l'ambasciatore russo che il numero cresceva. Tre giorni prima il governo aveva deciso di consegnarli, appena Mosca li richiedesse. Ivano il ministro dell'Economia di guerra Lord Selborn, scrisse a Churchill e Eden contro «la decisione di rimandare questa gente in Russia, che significherà per loro la morte».

Churchill concesse la solita esitazione alla sua fama di anima bella, poi si schierò con Eden, che ripeteva: «Non possiamo permetterci sentimentalismi». Il 23 agosto l'ambasciatore sovietico chiese la consegna dei prigionieri ma a domicilio; gli inglesi dovevano metterci anche le navi su cui rimandarli. Il ministro della guerra, Grigg, scrisse a Eden: «Lei crede che non possiamo permetterci sentimentalismi, ma io trovo la prospettiva piuttosto rivoltante. Tanto più che, se manderemo i prigionieri russi alla morte, toccherà a me le istruzioni alle autorità militari».

I russi erano, a questo momento, 3750, e bisognava decidere. C'erano ausiliarie, serve, cuoche, c'erano civili. E più appariva ovvia la necessità di distinguere, più Eden si ostinava su una sorte uguale per tutti. Nei campi di concentramento si dovettero separare dalla massa quei volontari irriducibilmente anticomunisti che non provavano ostilità contro Gran Bretagna e Stati Uniti, sulla cui protezione contavano, anzi, illudendosi come molti in Germania, che la guerra sarebbe continuata contro l'Unione Sovietica. Si sarebbero uccisi piuttosto che tornare in Russia. Comparvero le missioni sovietiche promettendo perdono e calorose accoglienze: «Bruceremo nel fuoco quelle uniformi tedesche che indossate», disse il generale Vasiliev in un campo nello Yorkshire: «Si, con noi dentro, lo sappiamo», lo interruppero.

Erano, ormai, due schiere: quelli che l'illusione di salvarsi consigliava ostentare una lealtà sovietica che meritasse loro il perdono; e gli altri che ostentavano, invece, il terrore e l'odio che dovevano impietosire gl'inglesi e indurli a rinunciare al rimpatrio. Si scatenarono i sentimenti peggiori, la delazione, e l'inganno; ma anche i migliori, la coerenza, il coraggio, lo stoicismo. Quanto alla salvezza, tutti e due i sistemi fallirono. Il 30 settembre 1944, Churchill e Eden fecero a Stalin la visita che restò famosa per il foglietto delle "percentuali", proposte dall'inglese e giovialmente sottoscritta dal furbo georgiano, cui non pareva vero d'incassare il 90 per cento dell'influenza in Romania e Bulgaria, e metà in tutto il resto, in cambio d'un 90 per cento agl'inglesi in Grecia. A Mosca, comunicò Churchill estasiato a Roosevelt, aveva trovato «una straordinaria atmosfera di buona volontà», e Harold Nicolson, un diplomatico e scrittore rinomato anche per altre ragioni, annotò: «Eden ha un vero affetto per Stalin», e «Stalin non ha mai mancato alla parola».

Tra illusioni e follie, maturò la decisione, mai prevista fino a quel momento, di rimpatriare i prigionieri anche con la forza, e subito furono spediti a Murmansk i primi diecimila. Lasciarono i porti inglesi il 31 ottobre. Un ufficiale inglese e un funzionario americano che li avevano accompagnati, osservarono che non ci fu alcun benvenuto: gli sbarcati s'incamminarono, carichi delle loro robe, sotto pesante scorta armata. I due comunicarono l'impressione ricevuta e gravi sospetti ai loro governi, ma il funzionario del Foreign Office che ricevette il rapporto rimase tranquillo: forse ignorava che la marcia al Lager più vicino era preludio ad anni di lavori forzati.


I prigionieri in mani americane erano ora 28.000. Eisenower domandò consiglio agli ufficiali sovietici di collegamento. Risposero che non era possibile, non c'erano russi coi tedeschi. Il 20 dicembre gli americani si allinearono agli inglesi: consegnare tutti, lo volessero o no. Restava una breccia: gli americani consideravano tedeschi tutti i prigionieri catturati in uniforme tedesca finché non si dichiarassero di nazione diversa. Avevano le loro buone ragioni, perché tedeschi e giapponesi avevano catturato numerosi americani, la cui cittadinanza appariva controversa. Essi intendevano che il «diritto dell'uniforme» fosse contraccambiato. Fino a quel momento i russi potevano sperare di scamparla dichiarandosi tedeschi. Non lo capirono, e in maggioranza si dichiararono russi, sperando in un trattamento migliore. Li ammassarono con un altro migliaio in partenza, e tutt'insieme cominciarono a smaniare e tentare suicidi. Era il preavviso di quel che si preparava.

Anche a Washington il ministro della Guerra era contrario alla consegna: «Ci assumiamo rischi inutili consegnando prigionieri tedeschi di origine russa. Saremo noi i responsabili del grande massacro che i sovietici commetteranno». Il ministro della Giustizia pose un grave problema: quale fondamento legale avesse la consegna di individui riluttanti e contrari. Né lui né il collega erano al corrente degli accordi già presi con l'inglesi.

La sorte dei disgraziati, ora saliti a centomila, fu suggellata a Yalta. «Erano tre anni che la propaganda inglese narrava le sofferenze ed esaltava gli eroismi del popolo russo. Aveva nascosto il vero carattere del governo sovietico. Aveva fatto credere che i suoi capi fossero simili ai nostri, così determinando, verso quel governo, un atteggiamento che rese possibili, e anche accettabili, alcuni grandi tradimenti», ha scritto nella prefazione a Bethell, Hugh Trevor-Roper, uno storico accademico c'ebbe incarichi di rilievo nei servizi segreti.

A Yalta Stalin, abilissimo negoziatore, incassò l'intera Polonia «incatenata, in ceppi e imballata», scrisse Gorge Kennan. Quello della Polonia è il meglio conosciuto, ma un tradimento a testa toccò ad ognuna delle nazioni "liberate" dell'Europa orientale: più i Croati, i Cetnici, i Cosacchi. Oggi si può misurare l'eccesso, incosciente e criminale, dello zelo filosovietico inglese, che si spinse a rimpatriare gli emigrati "bianchi", la cui consegna era stata esclusa per l'elementare evidenza che mai erano stati cittadini sovietici. Trevor-Roper dové ammettere: «Dei sei capi, la cui esecuzione fu pubblicamente annunciata, uno solo era passibile di rimpatrio. Gli altri dovevano indiscutibilmente restare prigionieri delle potenze occidentali e ricevere, infine, asilo politico (...). Per accontentare Stalin, gli "alleati" sacrificarono non solo i Cosacchi, ma anche i termini degli accordi di Yalta, e la distinzione tra tradimento e dissenso politico». Ernest Bevin, successore laburista di Eden, sentenziò: «Sarebbe difficile tracciare una linea tra rifugiati politici e traditori». Così calò il coperchio sulla tomba, comune agl'innocenti e ai supposti colpevoli.

Stalin aveva detto: «Ci occuperemo di quelli che hanno combattuto per i tedeschi quando saranno ritornati i Russia». E bisogna supporre, aggiunge Bethell, «che Churchill ed Eden sapessero che cosa intendeva Stalin quando parlava di "occuparsi di quella gente" che, in ogni caso, si erano già impegnati a regalargli». L'11 febbraio 1945 fu firmato l'accordo: «Tutti i cittadini sovietici liberati dalle armate alleate verranno separati dai prigionieri tedeschi (...) concentrati in luoghi predisposti, dove saranno ammesse commissioni sovietiche per il rimpatrio».

Nessuno accennò a rimpatri forzati, e Stalin propose di non far parola della decisione nel comunicato sulla Conferenza. Al Foreign Office ne furono consolati: «Questo accordo deve restare segreto», annotò un funzionario a margine. Poteva oscurare la luce radiosa in cui Yalta fu presentata all'Occidente liberaldemocratico entusiasta: la precisazione «cittadini sovietici» significava che i veterani della guerra civile e della "vecchia emigrazione" erano esclusi. Mai la civiltà liberaldemocratica fu più chiara e sicura di sé. Ora bisognava interrogare, distinguere, ci avrebbero pensato le illuminate missioni sovietiche. «Spiacevole e penoso» parve al brigadier generale R. Firebrace accompagnare il collega Ratov a interrogare i prigionieri per identificare i cittadini sovietici del 1939 che dovevano rimpatriare. Uno puntò il dito contro Ratov, gridando «Avete ucciso mio padre, avete ucciso mia madre, avete ucciso i miei fratelli, e io chiedo al generale inglese di uccidermi qui e subito, piuttosto che rimandarmi in Russia». Firebrace borbottò che quel disgraziato gli sembrava polacco e non russo, e lo ficcò in una lista di casi controversi, salvandolo, almeno per il momento.

Fece rumore il caso di Ivan e Natalia. Ivan, tent'anni, figlio di perseguitati politici, era stato più volte in carcere prima della guerra. Catturato dai tedeschi nel 1942, finì in un battaglione di lavoro dell'armata Vlassov. Nel 1943 sposò Natalia, una ragazza di diciassett'anni, che ora stava con lui nel campo, e a gennaio dette alla luce un bambino. Per il Foreign Office, tutto era chiaro: padre e madre «saranno consegnati, trattati duramente e probabilmente giustiziati», annotò tranquillo il funzionario, «mentre il bambino, inglese per nascita, sarà allevato a cura dello Stato». I due, che lo storico indica con lo pseudonimo Sidorow, ebbero una doppia fortuna: la tempestiva nascita e un'irriducibile anziana signora quacchera, Ethel Christie, ch'era stata crocerossina in Russia nel 1920, e scocciò mezzo mondo, fin che ottenne che Ivan e Natalia restassero in Inghilterra, dove tutt'ora vivono.

L'isolato caso di favola umanitaria fa soltanto risaltare la sfortuna dei disgraziati che, ficcati a forza nelle navi, salparono, ora, per Odessa. I primi viaggi riuscirono «sgradevoli» per la tensione tra scorta e marinai inglesi, e gli ufficiali sovietici. I prigionieri s'impiccavano, si tagliavano le vene, si gettavano dalle navi a Gibilterra, ai Dardanelli. I Turchi li ripescavano e li riconsegnavano. Alcuni furono fucilati all'arrivo, il 18 aprile 1945: gli ufficiali inglesi non poterono vedere, ma udirono gli spari: si sentirono rispondere che «erano stati giustiziati perché lavoravano per la polizia inglese ed erano venduti ai capitalisti».


Neppure queste esperienze recarono pentimenti. Il 30 maggio alcuni prigionieri si gettarono nel Bosforo, dalla "Empire Pride"; i turchi li riportarono, uno si tagliò le vene. A bordo imperversavano le delazioni, i sovietici interrogavano e selezionavano i prigionieri che, all'arrivo, furono costretti a camminare trascinandosi dietro i morenti, uno in coma, un altro appena amputato d'una gamba. L'ufficiale inglese vide quello che aveva tentato il suicidio mentre lo portavano via, e poi udì uno sparo. Il comandante della nave rifiutò di riprendere a bordo i sovietici nel viaggio di ritorno. E tuttavia i trasporti verso il macello continuarono. Le democrazie liberali avevano una parola da mantenere.

Finita la guerra in Europa non ci fu bisogno di navi, bastarono i camion e i treni a compiere l'opera. Il 22 maggio 1945 le commissioni sovietiche e americane per il rimpatrio s'incontrarono a Lipsia. I russi restituivano i prigionieri inglesi, americani e francesi che avevano trovato al lavoro nelle fattorie in Germania Orientale. Gli "alleati" ricambiavano, consegnando non soltanto i russi liberati dai campi di prigionia ma anche quelli che, arresisi in uniforme tedesca, ora imploravano di non essere rimandati in Urss. Fu allora che le democrazie liberali aggiunsero, alle categorie contemplate a Yalta, quelle che nessun impegno le obbligava a consegnare. Cominciarono con una commedia per i giornalisti: vagoni ferroviari decorati con scritte inneggianti alla «gloriosa madrepatria sovietica», e al «Padre della vittoria, il grande Stalin», vennero a caricare i primi gruppi, e scomparvero dietro la linea di demarcazione. «Nessuno appare riluttante al ritorno», scrissero i giornali americani. L'8 giugno, il generale Bradley espresse un parere più realistico: «Non credo che questa gente abbia molto da vivere».

Irriducibili restarono i Cosacchi che, in unità autonome dentro l'Esercito tedesco, si erano guadagnati alta reputazione sul campo. Nei documenti inglesi, la loro storia comincia il 17 maggio 1945, quando il maresciallo Alexander telefonò a Londra chiedendo come comportarsi con cinquantamila Cosacchi e venticinquemila Croati che si trovavano sul territorio occupato dalle sue truppe. Avvertiva che farli tornare nei Paesi d'origine era fatale per la loro esistenza. Churchill ebbe il consueto quarto d'ora d'anima bella, ma ci pensò a risolvere il problema Harold McMilan, editore versatile e futuro primo ministro, giunto dall'Italia. Il 29 maggio, Alexander ebbe l'ordine di consegnare i Croati alle missioni di Tito, e i Cosacchi a quelle di Stalin. Fu, per molti soldati inglesi, «Il più disgustoso ordine dell'intera guerra».

Gli Atamani dei Cosacchi del Don, generale Pyotr Krasnov, e del Kuban, generale Naumenko, combatterono nell'Armata bianca ed emigrarono nel 1920 in Europa occidentale con migliaia di seguaci. Quando la Wehrmacht entrò in Russia, questi uomini, che non accettarono lo Stato sovietico e non ne furono cittadini, organizzarono l'Esercito nazionale cosacco. Nell'equipaggiamento di base della Wehrmacht, conservarono i colbacchi, le bandoliere, le lunghe spade ricurve, le eleganti sciabole incrostate di pietre preziose, che passavano di padre in figlio nelle famiglie nobili, nei clan. Quando la Wehrmacht dovette ritirarsi, la disperata nazione la seguì sui carri tradizionali, tirati dai cavalli, e fu sistemata in territorio italiano, tra Tolmezzo e il confine austriaco. La sacca, denominata Cossackia, arrivò a contenere, verso la primavera 1945, trentacinquemila cosacchi, metà soldati e metà civili.

All'apparire dell'Ottava armata, che saliva dall'Italia, ripiegarono verso Nord, attraversando il confine con l'Austria al passo di Monte Santacroce, mentre i loro capi trattavano con gli inglesi che, preoccupati di dover domare questa sconosciuta orda orientale, rimasero «piacevolmente sorpresi» apprendendo ch'erano disposti ad arrendersi. Ancor maggiore fu la sorpresa quando incontrarono i capi caucasici, «dieci dei quali erano principi», d'aspetto fiero e aristocratico. Più tardi circolò voce che capo supremo era un altro, ossia, un'altra: una bella principessa che, scesa dalle montagne , rimproverò i principi d'essersi arresi, usurpando un'autorità che spettava a lei sola.

Gli inglesi credevano d'esser piombati in una favola orientale. Seguirono intense trattative. I Cosacchi erano convinti che gli occidentali avrebbero continuato la guerra, contro l'Unione Sovietica. Non avevano la minima idea del destino che li attendeva. Lo stato di servizio anticomunista pareva loro un'ottima presentazione agli "alleati". Se, in quei giorni, perfino gli ufficiali superiori inglesi ignoravano ancora gli accordi di Yalta, si può capire che i Cosacchi non fossero informati sulle nuove realtà politiche e militari.

Secondo le fonti inglesi il 16 maggio c'erano, nei dintorni di Lienz, ventiduemilanove uomini, quattromilaseicentonovantatré donne e duemilaquattrocentotrentasei bambini, mentre altri quattromilaottocento si erano acquartierati a Oberdrauburg, nell'alta valle della Drava. A pochi chilometri di là erano i Cosacchi del 15° Corpo di Cavalleria del generale Helmut von Pannwitz.

E intanto si avvicinava l'alta nazione che aveva combattuto dalla parte sbagliata, settecentomila Croati, tra esercito e popolazione. I loro capi dissero al generale Scott che cercavano asilo in Occidente perché rifiutavano di vivere sotto il comunismo. Lo supplicarono di riferire al governo inglese. Non potevano imbarcarli per qualche colonia in Africa o in America?

Quando capirono che non c'era speranza, accettarono di arrendersi ai commissari comunisti appena arrivati. Scott ricorda il generale croato, «una persona educata, molto corretto, tedesco nei modi». Ne ebbe pietà. Ma gli ordini delle liberaldemocrazie erano chiari: «I Croati erano nemici, i titini gli alleati». Del ritorno "in patria" s'incaricarono i partigiani della settima brigata jugoslava, che allestirono una serie di "marce della morte", ciascuna con migliaia d'infelici, legati con i fili spinati e costretti a correre dietro gli aguzzini avanzanti su camion e cavalli. Il problema si risolveva via via che a migliaia, sfigurati, dissanguati, mutilati, finirono sulle strade del martirio.


Liberi del problema croato, restava agli inglesi quello dei Cosacchi che aspettavano calmi, ordinati. Più conoscevano questa gente fiera e più gli inglesi li prendevano in simpatia. Ammiravano la dignità, il comportamento, la loro maestria a cavallo. Un certo maggiore "Rusty" Davies fu incaricato dei collegamenti. Poiché non sapeva cosa significasse l'incarico gli piacque. «Erano magnifica gente, di gran cuore e coraggio». Non sapeva ancora che «ognuno di loro, uomo, donna, bambino, doveva essere consegnato alle autorità sovietiche, lo volesse o no, con la forza se necessario». Il tenente generale Charles Keightley comandante il Quinto Corpo d'armata e, con speciale zelo, il suo Capo di Stato maggiore, Toby Low, ordinarono: «Nessuno deve scappare». Spiegarono anche che, seppure gli ufficiali superiori cosacchi, vecchi emigrati del 1920, fossero «in teoria» esclusi dalla consegna, la diplomazia inglese si era convinta che, se gli avessero dato anche queste vittime, Stalin, commosso dalla delicatezza, avrebbe tenuto «una linea più moderata» nella conferenza sul futuro della Polonia, che doveva aprirsi il 17 giugno.

I Cosacchi non dovevano sospettare il loro destino. Potevano resistere, combattere, come minacciavano, fino all'ultimo. Bisognava convincerli a cedere le armi. Gli fecero credere che il loro campionario di armamenti tedeschi e russi, italiani e jugoslavi, antiquato ed eterogeneo, era di ostacolo alla formazione della «legione cosacca» di cui parlavano gli inglesi, da impiegarsi chissà dove, forse in Giappone.

Il 26 maggio, a un rapporto di ufficiali superiori, il colonnello Malcom conobbe il suo compito, e inorridì: «Era il rinnegamento di tutto quanto avevamo detto ai Cosacchi...». «Non riuscivo a crederci», ricorda il maggiore Davies, che chiese di essere sostituito. E, invece, doveva restare, gli spiegarono i superiori, proprio per la fiducia che i Cosacchi riponevano in lui: gli avrebbero creduto, e sarebbero caduti nella trappola senza fare storie. E quando se ne fossero accorti, sarebbe stato tardi.

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