Sono stato per dieci anni figlio unico e, a
tavola, il mio ricatto preferito era: «...e allora non mangio!». Dico ricatto
perché di questo si trattava. Infatti, i bambini imparano subito, si può dire
appena nati, a usare l'unico mezzo di pressione che hanno: la bizza. Se n'era
accorto sant'Agostino nelle sue Confessioni, ma è sotto gli occhi di tutti che
la prova provata della verità del Peccato originale sono i pargoli. Ci vogliono
anni di educazione per farli diventare civili, cioè adulti, cioè responsabili,
cioè autodisciplinati, cioè consapevoli di non essere affatto il centro
dell'universo e che gli altri non esistono solo per servirli, soddisfarli e
accontentare ogni loro capriccio. Ecco, la differenza tra l'infantile e
l'adulto è tutta qui. Ma occorre che qualcuno si sia dato la pena di trarti
dall'infanzia, sennò rimani capriccioso e infantile tutta la vita.
Nel Medioevo l'infanzia era considerata un
periodo di assoluta dipendenza dal quale era carità cercare di tirarti fuori
prima possibile, proprio perché tu potessi diventare veramente libero. Come un
adulto autodisciplinato e responsabile. Infatti, i giocattoli non esistevano:
ai piccoli si davano gli stessi arnesi di lavoro dei grandi, spade, martelli,
bambole da accudire per le femminucce, ovviamente in proporzione. E' il motivo
per cui si dava del «voi» ai bambini, usanza rimasta a lungo nelle famiglie
reali e aristocratiche. Insomma, li si trattava da adulti fin da subito. Il
primo a fare dell'infanzia un mondo a parte con regole sue fu Rousseau, il
patriarca di tutti i «libertari» (ma anche dei giacobini tagliatori di teste,
l'altra faccia della stessa medaglia), il quale non a caso mise i suoi figli in
orfanotrofio pur essendo vivo.
Ah, vi chiedete che cosa diceva mio padre a
sentirmi esclamare «...e io non mangio!»? Niente, diceva. Le opzioni erano due,
a seconda del suo umore: o uno scapaccione o, nei casi estremi, la
riproposizione anche nei giorni successivi del piatto che avevo rifiutato,
sempre il medesimo, anche se diventato duro come il legno. Mio padre aveva
attraversato la guerra e la fame vera. Per lui, la tavola imbandita era una
benedizione celeste perché sapeva quel che la maggior parte di noi, figli del
benessere, non sa più: quanto sia realmente precario quel «pane quotidiano»
che, non a caso, è la prima delle richieste inserite da Cristo nell'unica
preghiera che ha insegnato.
Per tutto questo, cari lettori, quando vedo i
radicali fare lo sciopero della fame e/o della sete perché l'Italia intera
faccia quel che dicono loro non riesco a trattenermi dal sogghignare. A volte
si tratta di richieste davvero singolari, come quando -ricordate?- nel pieno
degli Anni di Piombo volevano disarmare la polizia. Eppure, una strana malìa fa
sì che i giornali riportino puntualmente i bollettini medici, quanti chili
hanno perso, gli appelli, anche di alte cariche, affinchè non rischino la vita:
già, il Paese ha bisogno delle loro «battaglie di civiltà» antiproibizioniste e
per l'abolizione di ogni divieto (tranne, ovviamente, ai cattolici «succubi del
Vaticano», ai quali, anzi, va vietato anche di parlare). Quando, da piccolo,
ricattavo i miei genitori a colpi di «...e io non mangio!», essendo appunto
piccolo non avevo chiaro il meccanismo perverso di cui mi stavo servendo. E che
era questo: so che voi, miei genitori, mi volete bene e che soffrite per ogni
mia sofferenza; per questo io vi faccio soffrire infliggendomi un pericolo alla
salute. Ora, ecco il punto: quanti sono quelli che vogliono bene ai radicali e
soffrono per le loro sofferenze? Stando all'ultimo referendum, molto pochi;
anzi, quattro gatti. E allora?
Rino CAMMILLERI
da storialibera.it
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