Correva l’anno 2011. Cominciò
Rosaria (Rosy per gli amici) Bindi, Pd, seguita a stretto giro da Roberto
Formigoni, Pdl, all’epoca governatore della Lombardia. La domanda delle Iene
(Mediaset) era: “ Stiamo festeggiando il 150° anniversario. Ma di che?”. La
prima non seppe rispondere, mentre il secondo, in pieno fervore padano-centrico,
offrì alle telecamere un èmpito indimenticabile: “I Milanesi cacciarono gli
Austriaci…”. Il presidente della Regione più importante, in un marasma
fantozziano, confuse due date e due episodi diversi. Sarà per un pregiudizio di
stampo platonico, del quale non mi libererò mai, ma ho sempre considerato la
cultura, o la conoscenza, come un prius rispetto alla politica. In altri termini:
prima sgobbare sui libri, e poi parlare. Vengo al punto. Il risorgimento, ormai
è d’accordo anche Aldo Cazzullo, partito da posizioni anti-meridionaliste, non
è stato quel movimento unitario e unificante nel quale si sono riconosciuti i
nostri padri, quella aspirazione di un intero popolo. Insomma, tutto tranne
quello che si legge sui libri di storia, l’esatto contrario di quello che ci
hanno raccontato due anni fa gli storici di palazzo, adusi a “grufolare in una
marana” (Shakespeare, Amleto). Ma, si dice, c’è stato un prezzo da pagare. Che
cosa terribile: morti (800mila), paesi rasi al suolo (54), stupri perpetrati
dai bersaglieri a danno delle donne meridionali, una economia florida distrutta
per sempre, ruberie di ogni tipo? Si tratta solo di fetenti meridionali, i cui
teschi sono ancora esposti al museo Lombroso, quali esempi di razza, o etnia,
naturalmente portata a delinquere. Nasce così l’Italia savoiarda, in questo
clima da conquista. Un prezzo da pagare: non si riesce a realizzare una cosa
semplicissima, e cioè che il sangue profuso sia stato cagionato dalle armi dei
“liberatori” a danno dei “liberati”. I quali liberati sono chiamati a
festeggiare ad ogni 17 marzo che Cristo manda in terra. Per la verità,
nonostante i soldi spesi e gli strombazzamenti di regime, il popolo italiano
mostra di non gradire festeggiamenti di un certo tipo, soprattutto se si tratta
di festeggiamenti imposti. Ancora, vogliamo parlare dei campi di
concentramento? Lo riconosce anche Mieli, che può essere accusato di tutto
tranne che di essere su posizioni filo-borboniche: gli sventurati soldati napoletani,
rei soltanto di non aver voluto prestare giuramento ad un usurpatore e di
essere rimasti fedeli al legittimo sovrano, furono ammassati nei campi del Nord
Italia, il più celebre dei quali (se ne occupò, con un articolo coevo, Civiltà
Cattolica) era ed è quello di Fenestrelle, in Piemonte, dove una scritta, visibile
ancora oggi, ricordava a quei poveri disgraziati che “l’uomo vale in quanto
produce” (ricorda qualcosa, o sbaglio?). A questo punto, subentra lo scarto logico:
se non festeggi il 17 marzo, sei anti-italiano, filo-leghista, e avanti così di
florilegio in florilegio. Come se ne esce? Semplicemente, non andando ad
imbucare strade, quelle del politicamente corretto, che sono strade piane e
larghe, ma sdrucciolevoli, che ti portano ad esaltare quel processo elitario ed
etero-diretto che è stato il risorgimento. L’italianità ha la sua matrice in
Dante, ed è una matrice culturale, evidentemente, come a dire che l’Italia
nasce con una premessa spirituale di spessore. Tutt’altra cosa rispetto ai
francofoni Cavour e Vittorio Emanuele.
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