venerdì 22 marzo 2013

QUANDO LA POLITICA SI SOVRAPPONE ALLA STORIA



Correva l’anno 2011. Cominciò Rosaria (Rosy per gli amici) Bindi, Pd, seguita a stretto giro da Roberto Formigoni, Pdl, all’epoca governatore della Lombardia. La domanda delle Iene (Mediaset) era: “ Stiamo festeggiando il 150° anniversario. Ma di che?”. La prima non seppe rispondere, mentre il secondo, in pieno fervore padano-centrico, offrì alle telecamere un èmpito indimenticabile: “I Milanesi cacciarono gli Austriaci…”. Il presidente della Regione più importante, in un marasma fantozziano, confuse due date e due episodi diversi. Sarà per un pregiudizio di stampo platonico, del quale non mi libererò mai, ma ho sempre considerato la cultura, o la conoscenza, come un prius rispetto alla politica. In altri termini: prima sgobbare sui libri, e poi parlare. Vengo al punto. Il risorgimento, ormai è d’accordo anche Aldo Cazzullo, partito da posizioni anti-meridionaliste, non è stato quel movimento unitario e unificante nel quale si sono riconosciuti i nostri padri, quella aspirazione di un intero popolo. Insomma, tutto tranne quello che si legge sui libri di storia, l’esatto contrario di quello che ci hanno raccontato due anni fa gli storici di palazzo, adusi a “grufolare in una marana” (Shakespeare, Amleto). Ma, si dice, c’è stato un prezzo da pagare. Che cosa terribile: morti (800mila), paesi rasi al suolo (54), stupri perpetrati dai bersaglieri a danno delle donne meridionali, una economia florida distrutta per sempre, ruberie di ogni tipo? Si tratta solo di fetenti meridionali, i cui teschi sono ancora esposti al museo Lombroso, quali esempi di razza, o etnia, naturalmente portata a delinquere. Nasce così l’Italia savoiarda, in questo clima da conquista. Un prezzo da pagare: non si riesce a realizzare una cosa semplicissima, e cioè che il sangue profuso sia stato cagionato dalle armi dei “liberatori” a danno dei “liberati”. I quali liberati sono chiamati a festeggiare ad ogni 17 marzo che Cristo manda in terra. Per la verità, nonostante i soldi spesi e gli strombazzamenti di regime, il popolo italiano mostra di non gradire festeggiamenti di un certo tipo, soprattutto se si tratta di festeggiamenti imposti. Ancora, vogliamo parlare dei campi di concentramento? Lo riconosce anche Mieli, che può essere accusato di tutto tranne che di essere su posizioni filo-borboniche: gli sventurati soldati napoletani, rei soltanto di non aver voluto prestare giuramento ad un usurpatore e di essere rimasti fedeli al legittimo sovrano, furono ammassati nei campi del Nord Italia, il più celebre dei quali (se ne occupò, con un articolo coevo, Civiltà Cattolica) era ed è quello di Fenestrelle, in Piemonte, dove una scritta, visibile ancora oggi, ricordava a quei poveri disgraziati che “l’uomo vale in quanto produce” (ricorda qualcosa, o sbaglio?). A questo punto, subentra lo scarto logico: se non festeggi il 17 marzo, sei anti-italiano, filo-leghista, e avanti così di florilegio in florilegio. Come se ne esce? Semplicemente, non andando ad imbucare strade, quelle del politicamente corretto, che sono strade piane e larghe, ma sdrucciolevoli, che ti portano ad esaltare quel processo elitario ed etero-diretto che è stato il risorgimento. L’italianità ha la sua matrice in Dante, ed è una matrice culturale, evidentemente, come a dire che l’Italia nasce con una premessa spirituale di spessore. Tutt’altra cosa rispetto ai francofoni Cavour e Vittorio Emanuele.   

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