sabato 6 aprile 2013

QUANDO LA POLITICA SI SOVRAPPONE ALLA STORIA





Alla ricerca della patria perduta

L’articolo, rimbalzato fra questo blog e Piazza Rossetti, arricchitosi di qualche spunto fra un passaggio e l’altro, qui trova ora degna sepoltura.

Questo “pezzo”, pubblicato sul mio blog (Cana Culex), mi suggerisce qualche postilla che affido alla cortese attenzione dei lettori di Piazza Rossetti. Innanzi tutto, mi sembra che si vada alla ricerca di una data-simbolo quasi giocando a mosca-cieca, con quel 17 marzo (1861) individuato come nascita dello Stato italiano unitario (o forse addirittura dell’Italia come nazione), anche se per la verità mancava Roma e mancavano quelle che la prosodia risorgimentale chiamava le terre irredente. Si dice, e si argomenta: ma si tratta comunque di un evento storico che ha unificato, evento però sanzionato, mi si vorrà concedere, da un plebiscito organizzato e gestito in un clima di violenze e di intimidazioni. Ne sappiamo qualcosa leggendo il Gattopardo, ne sappiamo molto studiando la storia di quel disgraziato periodo, nel quale i garibaldini, sparsi sul territorio dell’ex Regno, votarono più volte, mentre a Napoli gli uomini di Tore ‘e Crescenzo facevano il resto. E poi, anche questa è storia, la segretezza del voto semplicemente non esisteva. Per inciso, a Vasto si votò in corso Plebiscito (la toponomastica è ovviamente di stampo risorgimentale), in quei locali  che fino a qualche tempo fa ospitavano l’ufficiale sanitario. Su tutto aleggiavano, come i falchi, i liberali, per i quali l’Italia unita era sinonimo di affarismo. Ce ne ha parlato, da queste colonne, il preside Nicolangelo D’Adamo, ce ne parla, per quanto attiene Taranto, per esempio, Giacinto Peluso (l’equivalente tarantino, possiamo dire, del nostro prof. Costantino Felice), il quale ha documentato le distruzioni dell’immenso patrimonio storico perpetrate all’indomani dell’unità. Potrei continuare a lungo (come non ricordare la legge Pica?), ma mi fermo qui. E torno al punto. Se rileva il semplice fatto, plastico, fisico, della unificazione del suolo patrio, allora abbiamo a portata di mano il 25 aprile (1945) che segnò, per l’appunto, (semplifico e tralascio i particolari) la fine di quella divisione in due del nostro Paese, con Brindisi e Taranto che ospitavano gli uffici governativi dopo la fuga (vergognosa) del Re, da un lato, e, dall’altro, al Nord, la Repubblica Sociale. Allora, optiamo per il 25 aprile? Per me si può fare.     

Correva l’anno 2011. Cominciò Rosaria (Rosy per gli amici) Bindi, Pd, seguita a stretto giro da Roberto Formigoni, Pdl, all’epoca governatore della Lombardia. La domanda delle Iene (Mediaset) era: “ Stiamo festeggiando il 150° anniversario. Ma di che?”. La prima non seppe rispondere, mentre il secondo, in pieno fervore padano-centrico, offrì alle telecamere un èmpito indimenticabile: “I Milanesi cacciarono gli Austriaci…”. Il presidente della Regione più importante d’Italia, in un marasma fantozziano, confuse due date e due episodi diversi. Sarà per un pregiudizio di stampo platonico, del quale non mi libererò mai, ma ho sempre considerato la cultura, o la conoscenza, come un prius rispetto alla politica. In altri termini: prima sgobbare sui libri, e poi parlare. Vengo al punto. Il risorgimento, ormai è d’accordo anche Aldo Cazzullo, partito da posizioni anti-meridionaliste, non è stato quel movimento unitario e unificante nel quale si sono riconosciuti i nostri padri, quella aspirazione di un intero popolo. Insomma, tutto tranne quello che si legge sui libri di storia, l’esatto contrario di quello che ci hanno raccontato due anni fa gli storici di palazzo, adusi a “grufolare in una marana” (Shakespeare, Amleto). Ma, si dice, c’è stato un prezzo da pagare. Che cosa terribile: morti (800mila), paesi rasi al suolo (54), stupri perpetrati dai bersaglieri a danno delle donne meridionali, una economia florida distrutta per sempre, ruberie di ogni tipo? Si tratta solo di fetenti meridionali, i cui teschi sono ancora esposti al museo Lombroso, quali esempi di razza, o etnia, naturalmente portata a delinquere. Nasce così l’Italia savoiarda, in questo clima da conquista. Un prezzo da pagare: non si riesce a realizzare una cosa semplicissima, e cioè che il sangue profuso sia stato cagionato dalle armi dei “liberatori” a danno dei “liberati”. I quali liberati sono chiamati a festeggiare ad ogni 17 marzo che Cristo manda in terra. Per la verità, nonostante i soldi spesi e gli strombazzamenti di regime, il popolo italiano mostra di non gradire festeggiamenti di un certo tipo, soprattutto se si tratta di festeggiamenti imposti. Ancora, vogliamo parlare dei campi di concentramento? Lo riconosce anche Mieli, che può essere accusato di tutto tranne che di essere su posizioni filo-borboniche: gli sventurati soldati napoletani, rei soltanto di non aver voluto prestare giuramento ad un usurpatore e di essere rimasti fedeli al legittimo sovrano, furono ammassati nei campi del Nord Italia, il più celebre dei quali (se ne occupò, con un articolo coevo, Civiltà Cattolica) era ed è quello di Fenestrelle, in Piemonte, dove una scritta, visibile ancora oggi, ricordava a quei poveri disgraziati che “l’uomo vale in quanto produce” (ricorda qualcosa, o sbaglio?). A questo punto, subentra lo scarto logico: se non festeggi il 17 marzo, sei anti-italiano, filo-leghista, e avanti così di florilegio in florilegio. Come se ne esce? Semplicemente, non andando ad imbucare strade, quelle del politicamente corretto, che sono strade piane e larghe, ma sdrucciolevoli, che ti portano ad esaltare quel processo elitario ed etero-diretto che è stato il risorgimento. L’italianità ha la sua matrice in Dante, ed è una matrice culturale, evidentemente, come a dire che l’Italia nasce con una premessa spirituale di spessore. Tutt’altra cosa rispetto ai francofoni Cavour e Vittorio Emanuele.   

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