Alla ricerca della
patria perduta
L’articolo, rimbalzato fra questo blog e Piazza Rossetti, arricchitosi
di qualche spunto fra un passaggio e l’altro, qui trova ora degna sepoltura.
Questo “pezzo”, pubblicato sul mio blog (Cana Culex), mi suggerisce
qualche postilla che affido alla cortese attenzione dei lettori di Piazza
Rossetti. Innanzi tutto, mi sembra che si vada alla ricerca di una data-simbolo
quasi giocando a mosca-cieca, con quel 17 marzo (1861) individuato come nascita
dello Stato italiano unitario (o forse addirittura dell’Italia come nazione),
anche se per la verità mancava Roma e mancavano quelle che la prosodia
risorgimentale chiamava le terre irredente. Si dice, e si argomenta: ma si
tratta comunque di un evento storico che ha unificato, evento però sanzionato,
mi si vorrà concedere, da un plebiscito organizzato e gestito in un clima di
violenze e di intimidazioni. Ne sappiamo qualcosa leggendo il Gattopardo, ne
sappiamo molto studiando la storia di quel disgraziato periodo, nel quale i
garibaldini, sparsi sul territorio dell’ex Regno, votarono più volte, mentre a
Napoli gli uomini di Tore ‘e Crescenzo facevano il resto. E poi, anche questa è
storia, la segretezza del voto semplicemente non esisteva. Per inciso, a Vasto
si votò in corso Plebiscito (la toponomastica è ovviamente di stampo risorgimentale),
in quei locali che fino a qualche tempo
fa ospitavano l’ufficiale sanitario. Su tutto aleggiavano, come i falchi, i
liberali, per i quali l’Italia unita era sinonimo di affarismo. Ce ne ha
parlato, da queste colonne, il preside Nicolangelo D’Adamo, ce ne parla, per
quanto attiene Taranto, per esempio, Giacinto Peluso (l’equivalente tarantino,
possiamo dire, del nostro prof. Costantino Felice), il quale ha documentato le
distruzioni dell’immenso patrimonio storico perpetrate all’indomani dell’unità.
Potrei continuare a lungo (come non ricordare la legge Pica?), ma mi fermo qui.
E torno al punto. Se rileva il semplice fatto, plastico, fisico, della
unificazione del suolo patrio, allora abbiamo a portata di mano il 25 aprile (1945)
che segnò, per l’appunto, (semplifico e tralascio i particolari) la fine di
quella divisione in due del nostro Paese, con Brindisi e Taranto che ospitavano
gli uffici governativi dopo la fuga (vergognosa) del Re, da un lato, e,
dall’altro, al Nord, la Repubblica Sociale. Allora, optiamo per il 25 aprile?
Per me si può fare.
Correva l’anno 2011. Cominciò
Rosaria (Rosy per gli amici) Bindi, Pd, seguita a stretto giro da Roberto Formigoni,
Pdl, all’epoca governatore della Lombardia. La domanda delle Iene (Mediaset)
era: “ Stiamo festeggiando il 150° anniversario. Ma di che?”. La prima non
seppe rispondere, mentre il secondo, in pieno fervore padano-centrico, offrì
alle telecamere un èmpito indimenticabile: “I Milanesi cacciarono gli
Austriaci…”. Il presidente della Regione più importante d’Italia, in un marasma
fantozziano, confuse due date e due episodi diversi. Sarà per un pregiudizio di
stampo platonico, del quale non mi libererò mai, ma ho sempre considerato la
cultura, o la conoscenza, come un prius rispetto alla politica. In altri
termini: prima sgobbare sui libri, e poi parlare. Vengo al punto. Il risorgimento,
ormai è d’accordo anche Aldo Cazzullo, partito da posizioni anti-meridionaliste,
non è stato quel movimento unitario e unificante nel quale si sono riconosciuti
i nostri padri, quella aspirazione di un intero popolo. Insomma, tutto tranne
quello che si legge sui libri di storia, l’esatto contrario di quello che ci
hanno raccontato due anni fa gli storici di palazzo, adusi a “grufolare in una
marana” (Shakespeare, Amleto). Ma, si dice, c’è stato un prezzo da pagare. Che
cosa terribile: morti (800mila), paesi rasi al suolo (54), stupri perpetrati
dai bersaglieri a danno delle donne meridionali, una economia florida distrutta
per sempre, ruberie di ogni tipo? Si tratta solo di fetenti meridionali, i cui
teschi sono ancora esposti al museo Lombroso, quali esempi di razza, o etnia,
naturalmente portata a delinquere. Nasce così l’Italia savoiarda, in questo
clima da conquista. Un prezzo da pagare: non si riesce a realizzare una cosa
semplicissima, e cioè che il sangue profuso sia stato cagionato dalle armi dei
“liberatori” a danno dei “liberati”. I quali liberati sono chiamati a festeggiare
ad ogni 17 marzo che Cristo manda in terra. Per la verità, nonostante i soldi
spesi e gli strombazzamenti di regime, il popolo italiano mostra di non gradire
festeggiamenti di un certo tipo, soprattutto se si tratta di festeggiamenti
imposti. Ancora, vogliamo parlare dei campi di concentramento? Lo riconosce
anche Mieli, che può essere accusato di tutto tranne che di essere su posizioni
filo-borboniche: gli sventurati soldati napoletani, rei soltanto di non aver
voluto prestare giuramento ad un usurpatore e di essere rimasti fedeli al
legittimo sovrano, furono ammassati nei campi del Nord Italia, il più celebre
dei quali (se ne occupò, con un articolo coevo, Civiltà Cattolica) era ed è
quello di Fenestrelle, in Piemonte, dove una scritta, visibile ancora oggi,
ricordava a quei poveri disgraziati che “l’uomo vale in quanto produce”
(ricorda qualcosa, o sbaglio?). A questo punto, subentra lo scarto logico: se
non festeggi il 17 marzo, sei anti-italiano, filo-leghista, e avanti così di
florilegio in florilegio. Come se ne esce? Semplicemente, non andando ad
imbucare strade, quelle del politicamente corretto, che sono strade piane e
larghe, ma sdrucciolevoli, che ti portano ad esaltare quel processo elitario ed
etero-diretto che è stato il risorgimento. L’italianità ha la sua matrice in
Dante, ed è una matrice culturale, evidentemente, come a dire che l’Italia
nasce con una premessa spirituale di spessore. Tutt’altra cosa rispetto ai
francofoni Cavour e Vittorio Emanuele.
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