C’è ancora spazio per la cultura?
È
molto più di un trattato di retorica, molto più di uno studio sulle lingue e
sui dialetti. Adesso, a distanza di tanti anni (se si preferisce, di qualche
decennio), capisco cosa volesse significare la mia insegnante di letteratura
italiana: “Anche se Dante non avesse scritto la Divina Commedia, meriterebbe un
posto d’onore tra i classici di ogni tempo”. Per inciso, la docente dovrebbe
apprezzare, se non altro, la mia attenzione prestata in aula, anche se, magari,
davo da crederle altrimenti. La lettura del De vulgari eloquentia mi è stata
consigliata dall’amico Nicolangelo D’Adamo, per me e per quelli che lo
conoscono, “il Preside”, antonomasia che, accompagnata all’uso del “tu”, sta a significare
estrema familiarità, da un lato, e sicuro punto di riferimento nei piacevoli
discorsi sulla nostra nobilissima lingua e su tanto altro ancora. L’approccio
al trattato dantesco mi è stato facilitato da un appunto che avevo chiesto allo
stesso prof. D’Adamo in merito ad un tema impegnativo e, purtroppo, in questa
Italia distratta e insensibile, del tutto fuori moda: se il sommo poeta possa
essere considerato, e per quale ragione, il precursore dell’unità d’Italia. La
lettura dell’opera (in una scala gerarchica, considerata per forza di cose
“minore”: sembra una bestemmia) mi ha aperto davanti agli occhi un universo
fino a quel momento sconosciuto. Parlo di me, ovviamente. Il discorso fluisce
senza intoppi, seguendo una logica che sostiene lo studio dall’inizio alla
fine, mentre i continui rimandi alle Sacre Scritture, alla teologia e ad
Aristotele, lungi dall’appesantire, vivacizzano i contenuti e l’esposizione.
Sembra, sotto qualche riguardo, di leggere La Repubblica di Platone, con la sua
brillante capacità armonica, ineguagliabile, dove trovi passi di filosofia
pura, disquisizioni sulla migliore metrica da utilizzarsi nelle liriche,
dottrina dello Stato, definizione della teoria della metempsicosi. Il tutto in
un ferreo quadro logico. Così padre Dante, che nel De vulgari eloquentia spazia
dall’elenco dei dialetti italiani (ne censisce, dopo averli sfrondati da quelli
minori, quattordici) alla lingua parlata da Adamo (l’ebraico), dalla armonia
intrinseca alla singola stanza alla storia degli indoeuropei e delle loro
parlate. Lo fa da par suo, senza mai perdere la bussola e senza mai voler fare
sfoggio di cultura. Per davvero, è proprio degli uomini colti parlare e
scrivere in modo piano ed accessibile. Currenti calamo (l’opera è incompiuta),
l’autore incappa in qualche svista, come, ad esempio, nel fatto di ignorare l’ottonario che, inutilizzato dagli Stilnovisti, era stato ampiamente adoperato
dai loro predecessori. Al di là di questo, eccoti la definizione di volgare in generale, quella
lingua che nutricem imitantes accipimus, quella parlata che ci è propria in
quanto assimilata assieme al latte materno, eccoti, soprattutto, quella
esaltazione del volgare italiano, quell’idioma definito, in un significativo
contrasto terminologico, come “illustre”, quale germinazione di una lingua e di
una cultura, il latino e la Romanità, che Dante avverte come vive. Eppure il
volgare si emancipa dalla lingua dei padri e si pone, nel potente lavoro
dantesco, come risultato, non costruito artificialmente a tavolino, ma attinto
dalle varie parlate italiche (quanti elogi per il volgare siciliano). Con
un’opera scritta in latino (parere strettamente personale: il latino di Dante
rivaleggia con quello di Cicerone, perlomeno con quello di Gaio) il poeta
fiorentino ci ha consegnato una lingua splendida, una lingua che è causa ed
effetto insieme di una unità. Scevro da imbecillità leghiste, vergogne della
nostra epoca, non del Medioevo, che ci ostiniamo a considerare un’epoca buia,
il Nostro riesce a guardare alla lontana Trinacria, all’Apulia (nella
toponomastica del tempo ci siamo dentro anche noi, noi Vastesi), alle varie
realtà italiane, compresa la distinzione dialettale tra Borgo San Felice e Strada Maggiore, due quartieri di Bologna (a proposito
di Vasto, ci ricorda una situazione similare, vero?), con lo sguardo dell’uomo
di cultura che si sente a suo agio per ogni dove, accogliendo e valorizzando
quello che di meglio offrivano le variegate contrade della Penisola. Nasce così
l’italiano, prima dell’Italia, almeno come realtà statuale, si sviluppa in ogni
caso quell’idea di Italia, già molto antica, sostenuta da una robusta
connotazione culturale. Il contrario del mondo d’oggi, dove trionfano gli
anacoluti e l’ignoranza linguistica.
Giacinto Zappacosta
Nessun commento:
Posta un commento