Olivi, olivi per ogni dove, olivi
robusti, maestosi, resi in colori decisi e vivaci. Sembrano quasi venirti
incontro, abbracciarti col loro fogliame argenteo, fuoriuscire da una tela che
stenta a contenerli. E poi un muretto a secco, τόπος culturale che rimanda ad
altre realtà territoriali (viene in mente, e altrimenti non potrebbe essere, la
Puglia) eppure, con splendida forzatura, inserito nel cotesto locale, nella
città di Vasto, scenario ictu oculi riconoscibile per quelle agili pennellate
che ti indicano, in lontananza, il promontorio, argine meridionale del nostro
golfo. Completano la scena, già di per sé ricca di significanti, due anziani
seduti sul muricciolo, intenti a discorrere, l’uno nella postura
dell’ascoltatore attento, che cerca, senza trovarlo, lo sguardo dell’interlocutore,
perso, o forse concentrato su questioni che diresti gravi, epperò affrontate
con la serenità propria di quel cielo rassicurante, carico di una umidità che
raramente prorompe in procelle distruttive. La mano del vecchio, appoggiata sul
bastone, mano nodosa, nodosa come gli olivi delle nostre parti, al pari degli
alberi secolari visti, o immaginati, al di là di quella striscia di terra che
ti appare all’orizzonte, è parte del dialogo tra le due figure, mezzo
para-verbale che completa e caratterizza il discorso. Un gesto, un cenno, cui
ricorrevano i nostri vecchi (Marchesani) per significare assai più di tante
parole. Come molto stanno a significare quelle pietre sparse sul pianoro, che
siano espressione e resultato di un degrado a danno del muricciolo, in fin dei
conti destinato a sfaldarsi per l’incuria degli uomini o per il fluire del
tempo, che tutto annienta e involve, o, al contrario, elementi che l’umana
fatica va a depositare in vista di un rinvigorimento di quel manufatto che si
inserisce, senza violarlo, nell’ambiente circostante.
Le opere pittoriche di Antonio
D’Adamo, vastese, come quelle scultoree, fanno testimonianza di questo, in
ultima analisi: una ricerca delle proprie origini, che l’artista individua, non
senza un travaglio e una sofferenza interiori, in quella natura avvertita come
aspra, a tratti quasi aggressiva, come fosse in procinto di soffocare il
casolare, che sembra cedere a fronte dell’avanzare di una macchia mediterranea,
o altra conformazione vegetale che non sapresti definire, delineata con rapidi
ed essenziali tratti densi di colore. Nel che potresti vedere la dottrina di
Bergson, la realtà come creazione continua, vitalismo, divenire assoluto,
spontaneo processo creativo.
“Racconto la terra delle mie
origini – mi dice D’Adamo nel bel mezzo di una piacevole conversazione- quella
terra dove mio nonno ortolano si spostava con l’asino”. Conversazione che poi
prosegue toccando vari punti, dalla vastesità che va scomparendo alla storia patria.
Ma questo è un altro capitolo.
Giacinto Zappacosta
(riproduzione vietata)
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