sabato 21 settembre 2013

MURETTI E OLIVI NELLE SUGGESTIONI PITTORICHE DI ANTONIO D’ADAMO

Olivi, olivi per ogni dove, olivi robusti, maestosi, resi in colori decisi e vivaci. Sembrano quasi venirti incontro, abbracciarti col loro fogliame argenteo, fuoriuscire da una tela che stenta a contenerli. E poi un muretto a secco, τόπος culturale che rimanda ad altre realtà territoriali (viene in mente, e altrimenti non potrebbe essere, la Puglia) eppure, con splendida forzatura, inserito nel cotesto locale, nella città di Vasto, scenario ictu oculi riconoscibile per quelle agili pennellate che ti indicano, in lontananza, il promontorio, argine meridionale del nostro golfo. Completano la scena, già di per sé ricca di significanti, due anziani seduti sul muricciolo, intenti a discorrere, l’uno nella postura dell’ascoltatore attento, che cerca, senza trovarlo, lo sguardo dell’interlocutore, perso, o forse concentrato su questioni che diresti gravi, epperò affrontate con la serenità propria di quel cielo rassicurante, carico di una umidità che raramente prorompe in procelle distruttive. La mano del vecchio, appoggiata sul bastone, mano nodosa, nodosa come gli olivi delle nostre parti, al pari degli alberi secolari visti, o immaginati, al di là di quella striscia di terra che ti appare all’orizzonte, è parte del dialogo tra le due figure, mezzo para-verbale che completa e caratterizza il discorso. Un gesto, un cenno, cui ricorrevano i nostri vecchi (Marchesani) per significare assai più di tante parole. Come molto stanno a significare quelle pietre sparse sul pianoro, che siano espressione e resultato di un degrado a danno del muricciolo, in fin dei conti destinato a sfaldarsi per l’incuria degli uomini o per il fluire del tempo, che tutto annienta e involve, o, al contrario, elementi che l’umana fatica va a depositare in vista di un rinvigorimento di quel manufatto che si inserisce, senza violarlo, nell’ambiente circostante.
Le opere pittoriche di Antonio D’Adamo, vastese, come quelle scultoree, fanno testimonianza di questo, in ultima analisi: una ricerca delle proprie origini, che l’artista individua, non senza un travaglio e una sofferenza interiori, in quella natura avvertita come aspra, a tratti quasi aggressiva, come fosse in procinto di soffocare il casolare, che sembra cedere a fronte dell’avanzare di una macchia mediterranea, o altra conformazione vegetale che non sapresti definire, delineata con rapidi ed essenziali tratti densi di colore. Nel che potresti vedere la dottrina di Bergson, la realtà come creazione continua, vitalismo, divenire assoluto, spontaneo processo creativo.
“Racconto la terra delle mie origini – mi dice D’Adamo nel bel mezzo di una piacevole conversazione- quella terra dove mio nonno ortolano si spostava con l’asino”. Conversazione che poi prosegue toccando vari punti, dalla vastesità che va scomparendo alla storia patria. Ma questo è un altro capitolo.


Giacinto Zappacosta
(riproduzione vietata)

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