L’arte come tentativo
di dare forma e coerenza a situazioni e impressioni personali
La critica nei
confronti della società del suo tempo, la società vittoriana, è un atto
d’accusa netto, totale, senza sconti. Nelle ultime parole di Giuda Fawley,
forse il personaggio più complesso ed emblematico uscito dalla geniale penna di
Thomas Hardy, c’è la constatazione finale di uno iato irrisolvibile tra ideali
e storia, la vita, proprio in quanto tale, come aporia sistemica: “Muoia
il giorno in cui sono nato, e la notte
in cui fu detto: è stato concepito un uomo”. Giuda l’Oscuro, nonostante le
notti insonni passate sui libri a formarsi una cultura, non ha possibilità di
riscatto, di affermare se stesso, in una parola, di essere: rimane appunto
“l’Oscuro”, non visto, non considerato, un reietto, un fantasma, un escluso.
Hardy affida al suo ultimo romanzo tutto quello che aveva da dire, perlomeno in
prosa, dedicandosi successivamente solo alla poesia. Ma chi è Thomas Hardy,
autore non molto conosciuto in Italia? È un inglese che ama la cultura
classica, profondo conoscitore del greco antico e del latino, un architetto
prestato alla letteratura. La sua tecnica narrativa sovrasta i dialoghi, quasi
annullandoli a favore di un racconto vivido, coinvolgente, colorato, reso come
impressione, mai come ragionamento. Nel che, sia detto per inciso, c’è
l’affermazione concreta, temporalmente in anticipo, dell’idealità crociana
dell’arte. Anzi, Hardy ha chiara la consapevolezza del contenuto artistico come
di un quid acefalo, per così dire, rispetto alle stesse intenzioni del
narratore, un’intuizione affidata alla sensibilità del fruitore: “Non vi è
dubbio che in un libro vi possa essere molto più di quanto l’autore abbia
inteso dire”. Viene in mente, anche, la servetta che svia, e quasi guida, la
penna di Pirandello. Ed eccoti allora le descrizioni della campagna inglese,
delle città e dei borghi, delle rovine romane, che sono parte integrante del
paesaggio del Dorset, degli scompartimenti ferroviari, delle taverne di paese,
dei balli popolari, delle feste agresti, delle strade polverose. E poi le
sottili analisi psicologiche dei personaggi, le loro angosce, le frustrazioni,
le avversità, la sofferenza, il dramma dell’esistenza umana, la lotta mortale
tra carne e spirito, la durezza del lavoro dei contadini e degli scalpellini. Il tutto con dovizie di particolari, di
sfumature, ma sempre nell’ottica che l’espressione artistica “è semplicemente
un tentativo di dare forma e coerenza ad una serie di situazioni e di
impressioni personali”. Di qui qualche critica, ingenerosa per la verità, che
vede in Hardy “un romanziere migliore nelle singole parti rispetto
all’insieme”, critica che non tiene conto, però, della coerente impostazione
dello scrittore, della sua capacità di inserire contesti e personaggi in una
trama e in una coesione di fondo. In ogni caso, rimane la sensibilità di un
uomo che si china a considerare i suoi simili, soprattutto i più umili, rimane
altresì il valore di un autore che ha saputo affrontare l’ostracismo della
cultura dominante.
Giacinto
Zappacosta
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