giovedì 20 febbraio 2014

GIOVANI E LETTERATURA



Ho chiacchierato a lungo con una professoressa di Lettere sulle sensibilità dei giovani che frequentano le nostre scuole: le loro fragilità, i loro miti, l’idea che hanno dello studio e della scuola, i nuovi linguaggi, l’approccio che hanno con la letteratura “alta”, italiana, latina e greca. “Sappiamo che loro vanno in jet e noi con la cinquecento, mi ha detto, ed è difficile incontrarsi: noi chiediamo di fermarsi un giorno sul verso leopardiano: “ed era il maggio odoroso…”, o sul libro IV dell’Eneide, e loro con il telecomando o internet in cinque minuti visitano il mondo”. “Si lamentano perché tutti i poeti raccontano il male di vivere e nessuno sembra felice , ma nessuno dice loro che la gioia si vive e non c’è alcun motivo  di raccontarla, il dolore, invece, si rifiuta e lo si racconta per esorcizzarlo”. Per “portarli sulla cinquecento” e farli scendere dal jet bisogna urlare più di loro, inventarsi un linguaggio diretto, scuoterli dal torpore protetto e assicurato da una famiglia ipergarantista che risolve per loro ogni problema quotidiano, esercitare una egemonia culturale facilmente percepibile…”.Oddio, ho detto alla professoressa, mi sembra che chiediamo molto ad una categoria già abbastanza trascurata che con gli anni, complici governi e sindacati,  ha perso l’antica sacralità che i più vecchi hanno anche in parte conosciuta, oggi invece ha vestito i panni degli impiegati civili dello Stato”. La professoressa, stupita, mi ha guardato con occhi rassegnati e sistemandosi con una mano gli occhialini sul naso, ha mestamente annuito. Ma è stato un attimo: ha rialzato le spalle, indurito i muscoli facciali e con voce decisa mi ha detto: “Ma non tutti si sono rassegnati, sa! Molti di noi si sentono ancora “incendiari” e non si rassegnano a fare i “pompieri”, “le vestali della classe media”, come pure sono stati definiti. E sentivo nella voce decisa della professoressa l’antico orgoglio di una categoria ancora innamorata dei giovani e del proprio ruolo educativo, disposta ancora a spendersi per accompagnare i propri alunni lungo  gli accidentati sentieri della conoscenza, magari inventandosi quotidianamente metodi, linguaggi, strumenti didattici una volta inutili, raddoppiando gli sforzi di complesse indagini psicologiche per indagare  gli abissi profondi della  personalità di un adolescente oggi meno disposto di ieri ai sacrifici dello studio anche perché non ne vede immediatamente l’ “uso sociale”, che per lo studente degli anni cinquanta e sessanta era facilmente percepibile: studio uguale emancipazione.
E allora ho pensato a Ivan Illich, alle sue teorie sulla “descolarizzazione della scuola” e sulla “descolarizzazione della società”, pensate negli anni sessanta, alla vigilia di quel “sessantotto” che accenderà tante speranze e poi si  chiuderà in quel maledetto “settantasette”, sembra un secolo addietro! L’odissea delle riforme continua e quando e se arriveranno saranno già vecchie, intanto nella scuola ci sono ancora gli insegnanti che hanno l’orgoglio della loro professione e qualche giovane potrà ancora fermarsi un giorno a leggere emozionato quell’ idillio leopardiano o il racconto di quel tragico amore di Didone per Enea, almeno prima che squilli di nuovo il cellulare per ricominciare la giostra. Ecco il senso di tanti soldi pubblici spesi per la cultura, anche a livello locale: per una lenta emancipazione indispensabile per la crescita della civiltà. Soldi da investire soprattutto in un periodo di crisi se se ne vuole uscire per preparare una ripartenza.
Ma è stucchevole dover ripetere la stessa litania a governanti e amministratori.


NICOLANGELO D’ADAMO

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