venerdì 23 gennaio 2015

Giacinto Zappacosta, OPERETTE IMMORALI - Storie di miserie umane



Capitolo I
N
on si è mai capito bene come si chiamasse. Aveva tanti diminutivi, uno per ogni circostanza. Alla fine, forse, nemmeno lui sapeva il suo vero nome, o forse, il che è lo stesso, lo aveva dimenticato. Era calmo, sereno, di umore costante, sempre sulle sue, distaccato. Almeno in apparenza. Una cosa è certa: non amava  gli scherzi, ma nemmeno un motto di spirito, una facezia. Suscettibile, permaloso? No, non è questo il punto. Non concepiva, non ammetteva che in sua presenza si potesse ridere o sorridere, per qualsiasi motivo, prendendo spunto da qualsivoglia circostanza o fatto. Ed era inutile affannarsi a spiegagli “guarda che non ce l’avevo con te, parlavo d’altro, si faceva solo per trastullarci tra amici”. Peggio: diventava più luttuoso del solito, come una prefica, e si sfogava con i parenti più stretti. Dalle pieghe più recondite dell’animo, ma ogni tanto traspariva, reclamava a sé il primato, o forse l’esclusiva, della sofferenza, che rivendicava dinanzi all’universo mondo. Il guaio è che lo sfogo domestico, passando di parere in parere, produceva effetti devastanti. Alla scena non ha mai assistito nessuno, eccezion fatta per i congiunti, che però non assistevano, appunto, essendo protagonisti del climax, del crescendo di toni che si superava  in un fluire di stampo hegeliano. O forse manzoniano, come nell’episodio del torbido tentativo di rapimento di Lucia ad opera dei bravi di Don Rodrigo, che poi fu costretto a rivolgersi all’Innominato. E comunque il Manzoni viene in taglio per penetrare l’intimo significato dell’arengo, dove i parenti non parlavano due a due, come i promessi sposi, ma vociavano all’unisono, autoconvincendosi e convincendosi l’un l’altro. Ecco, il giovanotto è stato offeso, va difeso, interverremo. Quell’idea, durante una notte insonne, dapprima appena abbozzata, diventa piano di battaglia. All’indomani, in mattinata, innanzi tutto l’offensiva ideologico-cultuale: bisogna convincere il capo, rassicurarlo ed esserne rassicurati, isolare l’emulo di Tito Maccio Plauto il commediografo. Satura tota nostra est. No, tota vestra est, da noi, per noi, dinanzi a noi non si ride, non si sorride, non si scherza. Il capo si lascia convincere, tanto fa così con tutti, gli piace divertirsi, perché per lui sono tutti bravi, non in senso manzoniano,  ed elargisce complimenti ad ognuno, ma separatamente l’uno dall’altro. La strada è spianata, come ne I Demoni: “questa non te la perdonerò mai!”. Da quel momento c’è chi, rincasando la sera, controlla sotto il letto e chiude la porta a doppia mandata. Finora non è successo niente, ma non si può mai sapere.


Capitolo II
“M
a glielo hai detto?”. Il capo è al telefono. Il complemento di termine di quella frase è davanti a lui, davanti al capo in persona. Il complemento di termine diventa man mano complemento oggetto e, soprattutto, complemento di argomento. Un brutto argomento, denso, vissuto, sofferto, partecipato al capo con dovizia di particolari. Dio, la storia, la sorte, il caso, la fortuna, la tύχη: chi, o cosa, sarà stato a trasformare, ultra-pirandellianamente, un elemento del discorso in spettatore? Al confronto, il teatro dell’assurdo è ben poca cosa. Una volta erano i personaggi che andavano in cerca d’autore, ma non era  mai capitato che un passante venisse inserito, quale  spettatore non pagante (i soldi non ci sono di questi tempi), in una trama teatrale. E che trama, caspitina! La voce che interloquisce col capo vuole giustizia, soddisfazione. Il complemento di termine è giunto al termine. Dopo tutto, meglio di un oggetto, inteso come complemento diretto. Così pensava, così ragionava, così temeva o sperava. Ma non fu così. Il capo, si sa, tiene molto ai suoi, vuole che nessuno si disperda. Sistemata la cornetta, torna alle sue occupazioni, già dimentico. A quel punto, il complemento di termine diventa complemento di vocazione, di una vocazione dolce ed amicale. La voce ignora il mutamento genetico, o il semplice adattamento alle circostanze. Il capo è così, ma la voce non lo sa. Ne aveva scritto Alberto Pincherle, intrattenendo il lettore, per tutta la durata del romanzo, su una voce dai gusti vagamente decadenti, sofisticati, salaci. Ma Alberto, che si faceva chiamare Moravia, non aveva tenuto conto che il capo aveva le sue doti: era tetragono alla voce e tirava dritto per la sua strada, si mascherava. Ma non come il polipo di Teognide, giammai. Quello si avvinghiava per farsi tutt’uno con lo scoglio. Il capo no, ci mancherebbe, non voleva sparire nell’ambiente circostante, Dio ne scampi. Solo che ci sapeva fare. Galleggiava sempre.



Capitolo III
I
l caldo, nel bel mezzo della giornata, nel bel mezzo dell’estate, era soffocante. Eravamo tutti distrutti, tranne il capo. La canicola infernale, picchiando a perpendicolo sulle nostre teste, aveva fatto evaporare le rappresentazioni proprie di ognuno, nel senso (kantiano) di tutto ciò che è contenuto nel cranio umano, compresa la legge morale. Ma questa, per la verità, era già andata persa da un po’. “Vai” disse il capo, senza alzare la testa dal foglio che stava leggendo. La condanna era stata proferita, e significava l’attraversata del deserto. “Dopo tutto – si fece coraggio Mosè – entrerò in un castello, incontrerò gente importante, farò, vivrò, respirerò ”. Non aveva fatto i conti con l’aria stagnante di un primo pomeriggio, che avvolgeva, in un abbraccio putrido, l’immondizia maleodorante. Succede anche questo nel castello, anzi nel maschio. Mosè disse: “Ragazzi, prima ci sbrighiamo meglio è”. Lavorarono sodo, annullando l’effetto del deodorante ascellare. La monnezza, o mondezza, a seconda delle latitudini e delle longitudini, fermentava pigramente in quel riverbero di sole che penetrava nel cortile, mentre la pollina, depositata da generazioni di volatili, faceva il resto. Scesero verso il mare, affranti, imprecando ad ogni curva che faceva sobbalzare le emorroidi gonfiate dalla canicola e dagli sforzi per mettere insieme tutta quella mobilia raccolta nel castello, anzi nel maschio. Mosè si ricompose: non aveva mai avuto la passione per i traslochi. Una voce lo distolse: “Lei è il trasfocatore dell’altra volta? Metta pure al solito posto”. Mosè pianse e rimpianse. Il deserto gli sembrava ora la pineta dell’isola di San Domino, la pollina un efficace e benefico concime che allieta i campi e li rende ubertosi, il lezzo respirato nel castello, anzi nel maschio… beh, quello non lo abbandonò più, se lo portò dietro per sempre. Assieme a quella voce.


Capitolo IV
“Q
uel cappello? Sedetevi sopra, tanto è del nostro professore”. Mosè aveva appena iniziato a leggere, anzi a rileggere La scuola dei dittatori di Ignazio Silone, per gli amici Secondo Tranquilli. Quella frase, d’improvviso, lo fece star male. L’inquietudine si sommava all’angoscia di non riuscire a ricordare dove, quando avesse vissuto quel momento. Scire est meminisse. Ma qui Platone, con tutto il rispetto, non c’entrava un fico secco. Da quel momento il lettore non fu più tale, accantonò il libro e non ne prese in mano altri. Pensava solo a quel sedere che si accomodava sul cappello del professore. Trattandosi di un docente, immaginava istintivamente il copricapo come un elegante borsalino, tenuto d’estate nell’armadio in mezzo alla naftalina. Un bel cappello, che d’inverno, ripulito dai residui di anti-tarmico, faceva da corona ad una testa di un certo calibro. Ma cosa aveva a che fare con lui, con Mosè, quel cappello? Soprattutto, quel gesto, quell’invito a sedersi sopra il copri-cervello? Chiese, ma solo a se stesso, si sottopose ad una seduta di auto-maieutica, indagò. Perché quell’immagine lo tormentava? Si ricordò di una tavola imbandita, scatolette di tonno semi-vuote, molliche di pane dappertutto, vestigia di una cena nervosa e frugale accanto ad un televisore. Ma il capo non partecipò: si ritrasse nella sua stanza a pensare e, per non essere da meno, anzi per essere di più, spense le sigarette nei bicchieri di vetro, sicuro che, all’indomani, qualcuno avrebbe provveduto. Così avvenne, così fu fatto. E il posacenere? È tale in potenza, ma in atto serve ad abbellire la stanza e, di riflesso, ad abbellire il capo.


Capitolo V
N
on amava le persone grasse. Disponibile e affabile con tutti, andava in bestia al solo pensiero che potesse esistere una persona in sovrappeso. L’addetta alle relazioni esterne era fatta così. Ma Mosè, benché filiforme, ne ebbe piene le tasche. “Hai parlato come Fomà Fomíč” le urlò in faccia con adeguato livore. “Come chi?” chiese l’addetta. “Come Fomà Fomíč” scandì Mosè. “Ah, come Fomà Fomíč - fece eco l’addetta – ma chi cavolo è questo Fomà Fomíč?”. “E’ un personaggio citato in un romanzo, Candido per la precisione”. L’addetta se ne andò, imprecando ad ogni passo “Fomà Fomíč,  Fomà Fomíč”. Arrivata in ufficio, prese carta e penna: appuntò quel nome così strano e così complicato. Certo, omise l’apocope, aggiunse, a piacer suo, un’ h finale al cognome, fu incerta su qualche accento, ma il primo passo era compiuto. Bisognava ora organizzarsi, passare alla controffensiva culturale, pianificare la spedizione punitiva in tempo di pace, creare alleanze, anche tra i nemici, se necessario, ripristinare l’onore vilipeso, calpestato coram populo. Sì, perché quel nome, quel cavolo di  Fomà Fomíč, era stato proferito davanti alle persone che contano, di fronte al capo, che tutto vede, tutto osserva e tutto considera. Ma, intanto, a chi rimanda quel Fomà Fomíč ? Era un personaggio dell’antichità? O forse un politico vivente? Ecco, conoscere e approfondire la persona,  questa è la prossima mossa. Ma a chi chiedere, dove diavolo andare a scovare quel nome ? E poi quell’altro, quel  Candido, più che il nome di un romanzo sembra la marca di un detersivo. Ma certo, è d’uopo procurarsi il libro, ammesso che esista, perché Mosè potrebbe anche aver detto tanto per dire. O potrebbe anche aver sbagliato. Spolparsi un intero volume  alla ricerca di un nome, magari citato alla fine e una sola volta ? Non era proprio il caso. Leggere è faticoso di per sé, figuriamoci leggere e ricercare insieme. Che fare? Le sovvenne di un ragazzotto da poco laureatosi in lettere. Detto fatto. Il giovanotto si prestò volentieri: si procurò il romanzo, non si sa per quali canali, e lo lesse tutto d’un fiato. L’addetta fu raggiante quando si sentì dire che quel nome, quel Fomà Fomíč, proprio non c’era. Si fece avanti giuliva e sputò il rospo. Mosè capì subito: “c’è il Candido di Voltaire, ma anche il Candido di Sciascia, Leonardo Sciascia”. Il capo rise di gusto.



CAPITOLO VI
“L
‘uomo è ciò che mangia”. Figuriamoci quando mangia a sbafo, mercé una esibizione canora. L’assioma si applica, tale e quale, anche alle donne. La scena fu imbarazzante, per tutti. “Queste altre due? Sono mie amiche. Per la proprietà transitiva, di aristotelica memoria, nemmeno loro sono tenute a pagare”. La cena, in riva al fiume, nella dolce brezza notturna, fu luculliana. Buon pro per chi non ha pagato. Il capo si divertì molto e ascoltò l’esibizione canora. O meglio: si sforzò di ascoltarla, ma non la udì nessuno. Però la canzone valeva bene una cena, anzi tre, e la serata fu indimenticabile. L’idea si estese a macchia d’olio, immantinente: dall’angolo più buio della festa, balzò dal nulla Mosè, che si fece avanti un po’ assonnato. “Io sono poeta – proferì - nel senso che ho scritto e pubblicato, qua e là, più di una poesia; le reciterò qui, davanti a questo spettabile pubblico, dinanzi a codesti spettabili signori e leggiadre signore. L’esibizione mi varrà il rimborso del biglietto d’ingresso”. Lo guardarono tutti, esterrefatti. Poi si guardarono fra di loro. “Io ho una discreta esperienza di mino, a livello dilettantesco, per carità – pensò un avventore pagante – ma l’arte non mi riscatterà dall’obolo?”. All’improvviso, ognuno si ricordò di una certa sua inclinazione per il teatro drammatico, o per quello comico, o per la ginnastica ritmica. Il cassiere mise in salvo il danaro: la fila davanti a lui si era fatta particolarmente lunga.




VII ed ultimo capitolo
I
l capo, come tutti i capi, aveva i suoi difetti. Ma aveva anche tante virtù, in senso machiavelliano (non machiavellico), nel senso onnicomprensivo, cioè, di capacità ad affrontare problemi e difficoltà. Era un maestro, e lo stimavamo tutti. Avevamo per lui un affetto incommensurabile, una vera e propria devozione, anche quando si arrabbiava. Il che capitava spesso. Anzi, quando si incavolava dava il meglio di sé. “Rimanete in quella topaia” urlò una volta, ma nessuno di noi si offese. La prendemmo come un incoraggiamento a migliorare la nostra situazione logistica. Una volta fu sublime, superò se stesso. Era il maggio odoroso, il prato era splendido, lussureggiante di un verde acceso. Il capo aveva un fiuto speciale per le tv e le telecamere, sapeva porsi all’occhio del grande fratello televisivo, ai cronisti e ai microfoni. Quando andava in onda era eccelso. Ci sapeva fare, inutile negarlo. E quel giorno di primavera si dimostrò un segugio degno della caccia alle volpi. Vide la telecamera e si avvicinò con fare indifferente, calcolato, felpato, quasi emulo del marso cardinale Mazzarino. Certo, non era in primo piano, era in un dignitoso secondo piano, nella peggiore delle ipotesi in un campo lungo di tutto rispetto, però c’era. Passeggiava con passo professionale nell’ambito dell’angolo visivo, avendo l’accortezza (è proprio in queste circostanze che i grandi emergono) di indietreggiare con l’agilità di un felino quando si trovò di fronte a un poderoso muro, perché, così ci spiegò dopo, non si pensasse che era lì per orinare. Non fu colpa sua se il regista, del tutto immotivatamente e all’improvviso, posizionò la telecamera su un altro punto. Il capo sparì immantinente dal video. Questo però, obiettivamente, non inficiava le virtù, in senso machiavelliano, del capo. D’altra parte, lo stesso Machiavelli ha spiegato che a fronte della virtù esiste la fortuna, vox media tra il cosiddetto buco di sedere e la sfiga più nera. Comunque, rimasto nell’ombra catodica, lanciata qualche imprecazione alla malasorte, il capo preferì un commodus discessus, portandosi nell’ampia sala dove venne servito un ricco buffet. “Come sono venuto? – ci chiese - si vedevano le rughe?”. Nessuno di noi ebbe il coraggio di rispondere. Il buffet andò di traverso a tutti.

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