Capitolo I
N
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on si è mai capito bene come si
chiamasse. Aveva tanti diminutivi, uno per ogni circostanza. Alla
fine, forse, nemmeno lui sapeva il suo vero nome, o forse, il che è lo stesso,
lo aveva dimenticato. Era calmo, sereno, di umore costante, sempre sulle sue,
distaccato. Almeno in apparenza. Una cosa è certa: non amava gli scherzi, ma nemmeno un motto di spirito,
una facezia. Suscettibile, permaloso? No, non è questo il punto. Non concepiva,
non ammetteva che in sua presenza si potesse ridere o sorridere, per qualsiasi
motivo, prendendo spunto da qualsivoglia circostanza o fatto. Ed era inutile
affannarsi a spiegagli “guarda che non ce l’avevo con te, parlavo d’altro, si
faceva solo per trastullarci tra amici”. Peggio:
diventava più luttuoso del solito, come una prefica, e si sfogava con i parenti
più stretti. Dalle pieghe più recondite dell’animo,
ma ogni tanto traspariva, reclamava a sé il primato, o forse l’esclusiva, della
sofferenza, che rivendicava dinanzi all’universo mondo. Il guaio è che lo sfogo
domestico, passando di parere in parere, produceva effetti devastanti. Alla scena non ha mai assistito nessuno, eccezion fatta
per i congiunti, che però non assistevano, appunto, essendo protagonisti del
climax, del crescendo di toni che si superava in un fluire di stampo hegeliano. O
forse manzoniano, come nell’episodio del torbido tentativo di rapimento di
Lucia ad opera dei bravi di Don Rodrigo, che poi fu costretto a rivolgersi
all’Innominato. E comunque il Manzoni viene in taglio per penetrare l’intimo
significato dell’arengo, dove i parenti non parlavano due a due, come i
promessi sposi, ma vociavano all’unisono, autoconvincendosi e convincendosi
l’un l’altro. Ecco, il giovanotto è stato offeso, va difeso, interverremo.
Quell’idea, durante una notte insonne, dapprima appena abbozzata, diventa piano
di battaglia. All’indomani, in mattinata, innanzi tutto l’offensiva
ideologico-cultuale: bisogna convincere il capo, rassicurarlo ed esserne
rassicurati, isolare l’emulo di Tito Maccio Plauto il commediografo. Satura
tota nostra est. No, tota vestra est, da noi, per noi, dinanzi a noi non si
ride, non si sorride, non si scherza. Il capo si lascia convincere, tanto fa
così con tutti, gli piace divertirsi, perché per lui sono tutti bravi, non in
senso manzoniano, ed elargisce
complimenti ad ognuno, ma separatamente l’uno dall’altro. La strada è spianata,
come ne I Demoni: “questa non te la perdonerò mai!”. Da quel momento c’è chi, rincasando
la sera, controlla sotto il letto e chiude la porta a doppia mandata. Finora
non è successo niente, ma non si può mai sapere.
Capitolo II
“M
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a glielo hai detto?”. Il
capo è al telefono. Il complemento di termine di quella frase è davanti a lui, davanti
al capo in persona. Il complemento di termine diventa man mano complemento
oggetto e, soprattutto, complemento di argomento. Un brutto argomento, denso,
vissuto, sofferto, partecipato al capo con dovizia di particolari. Dio, la
storia, la sorte, il caso, la fortuna, la tύχη: chi, o cosa, sarà stato a
trasformare, ultra-pirandellianamente, un elemento del discorso in spettatore?
Al confronto, il teatro dell’assurdo è ben poca cosa. Una volta erano i
personaggi che andavano in cerca d’autore, ma non era mai capitato che un passante venisse
inserito, quale spettatore non pagante
(i soldi non ci sono di questi tempi), in una trama teatrale. E che trama,
caspitina! La voce che interloquisce col capo vuole giustizia, soddisfazione.
Il complemento di termine è giunto al termine. Dopo tutto, meglio di un
oggetto, inteso come complemento diretto. Così pensava, così ragionava, così
temeva o sperava. Ma non fu così. Il capo, si sa, tiene molto ai suoi, vuole
che nessuno si disperda. Sistemata la cornetta, torna alle sue occupazioni, già
dimentico. A quel punto, il complemento di termine diventa complemento di
vocazione, di una vocazione dolce ed amicale. La voce ignora il mutamento
genetico, o il semplice adattamento alle circostanze. Il capo è così, ma la voce
non lo sa. Ne aveva scritto Alberto Pincherle, intrattenendo il lettore, per
tutta la durata del romanzo, su una voce dai gusti vagamente decadenti,
sofisticati, salaci. Ma Alberto, che si faceva chiamare Moravia, non aveva
tenuto conto che il capo aveva le sue doti: era tetragono alla voce e tirava
dritto per la sua strada, si mascherava. Ma non come il polipo di Teognide,
giammai. Quello si avvinghiava per farsi tutt’uno con lo scoglio. Il capo no,
ci mancherebbe, non voleva sparire nell’ambiente circostante, Dio ne scampi.
Solo che ci sapeva fare. Galleggiava sempre.
Capitolo III
I
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l caldo, nel bel mezzo della
giornata, nel bel mezzo dell’estate, era soffocante. Eravamo
tutti distrutti, tranne il capo. La canicola infernale, picchiando a perpendicolo
sulle nostre teste, aveva fatto evaporare le rappresentazioni proprie di
ognuno, nel senso (kantiano) di tutto ciò che è contenuto nel cranio umano,
compresa la legge morale. Ma questa, per la verità, era già andata persa da un
po’. “Vai” disse il capo, senza alzare la testa dal foglio che stava leggendo.
La condanna era stata proferita, e significava l’attraversata del deserto.
“Dopo tutto – si fece coraggio Mosè – entrerò in un castello, incontrerò gente
importante, farò, vivrò, respirerò ”. Non aveva fatto i conti con l’aria
stagnante di un primo pomeriggio, che avvolgeva, in un abbraccio putrido,
l’immondizia maleodorante. Succede anche questo nel castello, anzi nel maschio.
Mosè disse: “Ragazzi, prima ci sbrighiamo meglio è”. Lavorarono sodo, annullando l’effetto del deodorante
ascellare. La monnezza, o mondezza, a seconda delle latitudini e delle
longitudini, fermentava pigramente in quel riverbero di sole che penetrava nel
cortile, mentre la pollina, depositata da generazioni di volatili, faceva il
resto. Scesero verso il mare, affranti,
imprecando ad ogni curva che faceva sobbalzare le emorroidi gonfiate dalla
canicola e dagli sforzi per mettere insieme tutta quella mobilia raccolta nel
castello, anzi nel maschio. Mosè si ricompose: non aveva mai avuto la passione
per i traslochi. Una voce lo distolse: “Lei è il trasfocatore dell’altra volta?
Metta pure al solito posto”. Mosè pianse e rimpianse. Il deserto gli sembrava
ora la pineta dell’isola di San Domino, la pollina un efficace e benefico
concime che allieta i campi e li rende ubertosi, il lezzo respirato nel castello,
anzi nel maschio… beh, quello non lo abbandonò più, se lo portò dietro per
sempre. Assieme a quella voce.
Capitolo IV
“Q
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uel cappello? Sedetevi
sopra, tanto è del nostro professore”. Mosè aveva appena iniziato a leggere,
anzi a rileggere La scuola dei dittatori
di Ignazio Silone, per gli amici Secondo Tranquilli. Quella frase,
d’improvviso, lo fece star male. L’inquietudine si sommava all’angoscia di non
riuscire a ricordare dove, quando avesse vissuto quel momento. Scire est
meminisse. Ma qui Platone, con tutto il rispetto, non c’entrava un fico secco.
Da quel momento il lettore non fu più tale, accantonò il libro e non ne prese
in mano altri. Pensava solo a quel sedere che si accomodava sul cappello del
professore. Trattandosi di un docente, immaginava istintivamente il copricapo
come un elegante borsalino, tenuto d’estate nell’armadio in mezzo alla
naftalina. Un bel cappello, che d’inverno, ripulito dai residui di
anti-tarmico, faceva da corona ad una testa di un certo calibro. Ma cosa aveva
a che fare con lui, con Mosè, quel cappello? Soprattutto, quel gesto,
quell’invito a sedersi sopra il copri-cervello? Chiese, ma solo a se stesso, si
sottopose ad una seduta di auto-maieutica, indagò. Perché quell’immagine lo
tormentava? Si ricordò di una tavola imbandita, scatolette di tonno semi-vuote,
molliche di pane dappertutto, vestigia di una cena nervosa e frugale accanto ad
un televisore. Ma il capo non partecipò: si ritrasse nella sua stanza a pensare
e, per non essere da meno, anzi per essere di più, spense le sigarette nei
bicchieri di vetro, sicuro che, all’indomani, qualcuno avrebbe provveduto. Così
avvenne, così fu fatto. E il posacenere? È tale in potenza, ma in atto serve ad
abbellire la stanza e, di riflesso, ad abbellire il capo.
Capitolo V
N
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on amava le persone grasse. Disponibile
e affabile con tutti, andava in bestia al solo pensiero che potesse esistere
una persona in sovrappeso. L’addetta alle relazioni esterne era fatta così. Ma
Mosè, benché filiforme, ne ebbe piene le tasche. “Hai parlato come Fomà Fomíč”
le urlò in faccia con adeguato livore. “Come chi?” chiese l’addetta. “Come Fomà
Fomíč” scandì Mosè. “Ah, come Fomà Fomíč - fece eco l’addetta – ma chi cavolo è
questo Fomà Fomíč?”. “E’ un personaggio citato in un romanzo, Candido per la precisione”. L’addetta se
ne andò, imprecando ad ogni passo “Fomà Fomíč, Fomà Fomíč”. Arrivata in ufficio, prese carta
e penna: appuntò quel nome così strano e così complicato. Certo, omise
l’apocope, aggiunse, a piacer suo, un’ h
finale al cognome, fu incerta su qualche accento, ma il primo passo era
compiuto. Bisognava ora organizzarsi, passare alla controffensiva culturale,
pianificare la spedizione punitiva in tempo di pace, creare alleanze, anche tra
i nemici, se necessario, ripristinare l’onore vilipeso, calpestato coram
populo. Sì, perché quel nome, quel cavolo di Fomà Fomíč, era stato proferito davanti alle
persone che contano, di fronte al capo, che tutto vede, tutto osserva e tutto
considera. Ma, intanto, a chi rimanda quel Fomà Fomíč ? Era un personaggio
dell’antichità? O forse un politico vivente? Ecco, conoscere e approfondire la
persona, questa è la prossima mossa. Ma
a chi chiedere, dove diavolo andare a scovare quel nome ? E poi quell’altro,
quel Candido, più che il nome di un
romanzo sembra la marca di un detersivo. Ma certo, è d’uopo procurarsi il
libro, ammesso che esista, perché Mosè potrebbe anche aver detto tanto per
dire. O potrebbe anche aver sbagliato. Spolparsi un intero volume alla ricerca di un nome, magari citato alla
fine e una sola volta ? Non era proprio il caso. Leggere è faticoso di per sé,
figuriamoci leggere e ricercare insieme. Che fare? Le sovvenne di un ragazzotto
da poco laureatosi in lettere. Detto fatto. Il giovanotto si prestò volentieri:
si procurò il romanzo, non si sa per quali canali, e lo lesse tutto d’un fiato.
L’addetta fu raggiante quando si sentì dire che quel nome, quel Fomà Fomíč,
proprio non c’era. Si fece avanti giuliva e sputò il rospo. Mosè capì subito:
“c’è il Candido di Voltaire, ma anche
il Candido di Sciascia, Leonardo
Sciascia”. Il capo rise di gusto.
CAPITOLO
VI
“L
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‘uomo è ciò che mangia”. Figuriamoci
quando mangia a sbafo, mercé una esibizione canora. L’assioma si applica, tale
e quale, anche alle donne. La scena fu imbarazzante, per tutti. “Queste altre
due? Sono mie amiche. Per la proprietà transitiva, di aristotelica memoria,
nemmeno loro sono tenute a pagare”. La
cena, in riva al fiume, nella dolce brezza notturna, fu luculliana. Buon
pro per chi non ha pagato. Il capo si divertì molto e ascoltò l’esibizione
canora. O meglio: si sforzò di ascoltarla, ma non la udì nessuno.
Però la canzone valeva bene una cena, anzi tre, e la serata fu indimenticabile.
L’idea si estese a macchia d’olio, immantinente:
dall’angolo più buio della festa, balzò dal nulla Mosè, che si fece avanti un
po’ assonnato. “Io sono poeta – proferì - nel senso che ho scritto e
pubblicato, qua e là, più di una poesia; le reciterò qui, davanti a questo
spettabile pubblico, dinanzi a codesti spettabili signori e leggiadre signore.
L’esibizione mi varrà il rimborso del biglietto d’ingresso”. Lo guardarono tutti, esterrefatti. Poi si guardarono fra
di loro. “Io ho una discreta esperienza di mino,
a livello dilettantesco, per carità – pensò un avventore pagante – ma l’arte
non mi riscatterà dall’obolo?”. All’improvviso, ognuno si ricordò di una certa
sua inclinazione per il teatro drammatico, o per quello comico, o per la
ginnastica ritmica. Il cassiere mise in salvo il danaro: la fila davanti a lui
si era fatta particolarmente lunga.
VII ed ultimo capitolo
I
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l capo, come tutti i capi,
aveva i suoi difetti. Ma aveva anche tante virtù, in senso machiavelliano (non
machiavellico), nel senso onnicomprensivo, cioè, di capacità ad affrontare
problemi e difficoltà. Era un maestro, e lo stimavamo tutti. Avevamo per lui un
affetto incommensurabile, una vera e propria devozione, anche quando si
arrabbiava. Il che capitava spesso. Anzi, quando si incavolava dava il meglio
di sé. “Rimanete in quella topaia” urlò una volta, ma nessuno di noi si offese.
La prendemmo come un incoraggiamento a migliorare la nostra situazione
logistica. Una volta fu sublime, superò se stesso. Era il maggio odoroso, il
prato era splendido, lussureggiante di un verde acceso. Il capo aveva un fiuto
speciale per le tv e le telecamere, sapeva porsi all’occhio del grande fratello
televisivo, ai cronisti e ai microfoni. Quando andava in onda era eccelso. Ci
sapeva fare, inutile negarlo. E quel giorno di primavera si dimostrò un segugio
degno della caccia alle volpi. Vide la telecamera e si avvicinò con fare
indifferente, calcolato, felpato, quasi emulo del marso cardinale Mazzarino.
Certo, non era in primo piano, era in un dignitoso secondo piano, nella
peggiore delle ipotesi in un campo lungo di tutto rispetto, però c’era.
Passeggiava con passo professionale nell’ambito dell’angolo visivo, avendo
l’accortezza (è proprio in queste circostanze che i grandi emergono) di
indietreggiare con l’agilità di un felino quando si trovò di fronte a un
poderoso muro, perché, così ci spiegò dopo, non si pensasse che era lì per
orinare. Non fu colpa sua se il regista, del tutto immotivatamente e
all’improvviso, posizionò la telecamera su un altro punto. Il capo sparì
immantinente dal video. Questo però, obiettivamente, non inficiava le virtù, in
senso machiavelliano, del capo. D’altra parte, lo stesso Machiavelli ha
spiegato che a fronte della virtù esiste la fortuna, vox media tra il
cosiddetto buco di sedere e la sfiga più nera. Comunque, rimasto nell’ombra
catodica, lanciata qualche imprecazione alla malasorte, il capo preferì un
commodus discessus, portandosi nell’ampia sala dove venne servito un ricco
buffet. “Come sono venuto? – ci chiese - si vedevano le rughe?”. Nessuno di noi
ebbe il coraggio di rispondere. Il buffet andò di traverso a tutti.
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