Si sarebbe ribellato,
vivendo qui e adesso, tra di noi, in questa Italia e in questo mondo che
sembrano aver perso la rotta, alla mentalità diffusa, al politicamente corretto,
che fagocitano nell’ideologia unica, indistinta, sentimenti, passioni, ideali.
Pasolini, comunista e radicale, ma a modo suo (“la componente anarchica della
mia ideologia” scriveva parlando di se stesso), ci bastonerebbe, con i suoi
scritti, ammesso che riuscisse a trovare un editore disponibile, ci
svergognerebbe mettendo a nudo la imbecillità imperante, quella società liquida
senza punti fermi, insofferente a qualsiasi verità, filosofica o di fede. La
opposizione di Pasolini era sistemica, con tratti foscoliani, mi verrebbe da
dire, a volte aristocratica, dura nei suoi giudizi, come di chi non cerca
l’elogio, la facile approvazione, il consenso. Anzi, sembrava quasi che
rifuggisse il mondo che, già allora, era avviato alla dissoluzione antropologica,
come appunto nella spietata analisi pasoliniana. Un personaggio, un autore
complesso, intimamente contraddittorio, ai limiti di una incoerenza, splendida
nelle sue ruvidezze di contenuto, eppure granitica nelle sue apodissi. La
pretesa etica, un’etica svincolata, “affrancata” da qualsivoglia riferimento
superiore, direbbe lo scrittore bolognese, da cui muove nei suoi scritti.
Epperò una morale esiste o, come diremmo oggi, non tutto quello che è
possibile, o tecnicamente accessibile, è lecito. Prendiamo gli interrogativi
sull’aborto: ne vengono fuori passi sconvolgenti. “Non c’è nessuna buona
ragione pratica che giustifichi la soppressione di un essere umano, sia pure
nei primi stadi della sua evoluzione. Io - scrive Pasolini - so che in nessun
altro fenomeno dell’esistenza c’è un’ altrettanto furibonda, totale, essenziale
volontà di vita che nel feto. La sua ansia di attivare la propria potenzialità,
ripercorrendo fulmineamente la storia del genere umano, ha qualcosa di
irresistibile e perciò di assoluto e di gioioso. Anche se poi nasce un
imbecille” (Una lettera di Pasolini: opinioni sull’aborto, Paese Sera, 25
gennaio 1975). L’aborto, appunto, diritto civile per i più, approdo di un’ansia
di libertà, viceversa dramma per chi
voglia guardare più a fondo, al di là delle brume e della cortina fumogena di
una propaganda dalla facile presa. Intanto, dice lo scrittore-regista,
l’accesso all’interruzione della gravidanza affranca il maschio dalle sue
responsabilità, lo colloca in un limbo, o paradiso artificiale, nel quale tutto
è ammesso. È il risultato della società dei consumi, il cancro della nostra
epoca, il rimbambimento totalizzante e totalitario che ha degradato gli
Italiani a “polli d’allevamento”. Così nella feroce disamina pasoliniana.
Parole di fuoco, che lasciano interdetti. Che però fanno pensare. Un autore
scomodo, dunque, che avrebbe tanto ancora da dire, e da criticare, se fosse
ancora tra noi. Ne approfitterei per chiedergli come mai nel suo “Vangelo
secondo Matteo”, contraddicendo un dato storico, che ha una valenza teologica,
abbia posto la Madonna assieme alle pie donne che si recavano, di buon mattino,
al sepolcro del Salvatore. Me ne avrebbe parlato con dovizia di riferimenti
biblici. Forse non mi avrebbe convinto, ma mi avrebbe affascinato.
Giacinto Zappacosta
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