lunedì 12 gennaio 2015

La complessità degli scritti di Pasolini. Con un risvolto sconvolgente



Si sarebbe ribellato, vivendo qui e adesso, tra di noi, in questa Italia e in questo mondo che sembrano aver perso la rotta, alla mentalità diffusa, al politicamente corretto, che fagocitano nell’ideologia unica, indistinta, sentimenti, passioni, ideali. Pasolini, comunista e radicale, ma a modo suo (“la componente anarchica della mia ideologia” scriveva parlando di se stesso), ci bastonerebbe, con i suoi scritti, ammesso che riuscisse a trovare un editore disponibile, ci svergognerebbe mettendo a nudo la imbecillità imperante, quella società liquida senza punti fermi, insofferente a qualsiasi verità, filosofica o di fede. La opposizione di Pasolini era sistemica, con tratti foscoliani, mi verrebbe da dire, a volte aristocratica, dura nei suoi giudizi, come di chi non cerca l’elogio, la facile approvazione, il consenso. Anzi, sembrava quasi che rifuggisse il mondo che, già allora, era avviato alla dissoluzione antropologica, come appunto nella spietata analisi pasoliniana. Un personaggio, un autore complesso, intimamente contraddittorio, ai limiti di una incoerenza, splendida nelle sue ruvidezze di contenuto, eppure granitica nelle sue apodissi. La pretesa etica, un’etica svincolata, “affrancata” da qualsivoglia riferimento superiore, direbbe lo scrittore bolognese, da cui muove nei suoi scritti. Epperò una morale esiste o, come diremmo oggi, non tutto quello che è possibile, o tecnicamente accessibile, è lecito. Prendiamo gli interrogativi sull’aborto: ne vengono fuori passi sconvolgenti. “Non c’è nessuna buona ragione pratica che giustifichi la soppressione di un essere umano, sia pure nei primi stadi della sua evoluzione. Io - scrive Pasolini - so che in nessun altro fenomeno dell’esistenza c’è un’ altrettanto furibonda, totale, essenziale volontà di vita che nel feto. La sua ansia di attivare la propria potenzialità, ripercorrendo fulmineamente la storia del genere umano, ha qualcosa di irresistibile e perciò di assoluto e di gioioso. Anche se poi nasce un imbecille” (Una lettera di Pasolini: opinioni sull’aborto, Paese Sera, 25 gennaio 1975). L’aborto, appunto, diritto civile per i più, approdo di un’ansia di libertà,  viceversa dramma per chi voglia guardare più a fondo, al di là delle brume e della cortina fumogena di una propaganda dalla facile presa. Intanto, dice lo scrittore-regista, l’accesso all’interruzione della gravidanza affranca il maschio dalle sue responsabilità, lo colloca in un limbo, o paradiso artificiale, nel quale tutto è ammesso. È il risultato della società dei consumi, il cancro della nostra epoca, il rimbambimento totalizzante e totalitario che ha degradato gli Italiani a “polli d’allevamento”. Così nella feroce disamina pasoliniana. Parole di fuoco, che lasciano interdetti. Che però fanno pensare. Un autore scomodo, dunque, che avrebbe tanto ancora da dire, e da criticare, se fosse ancora tra noi. Ne approfitterei per chiedergli come mai nel suo “Vangelo secondo Matteo”, contraddicendo un dato storico, che ha una valenza teologica, abbia posto la Madonna assieme alle pie donne che si recavano, di buon mattino, al sepolcro del Salvatore. Me ne avrebbe parlato con dovizia di riferimenti biblici. Forse non mi avrebbe convinto, ma mi avrebbe affascinato.


Giacinto Zappacosta

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