Così sono io (se vi
pare)
Non so concentrare la
mia felicità in un piccolo spazio, come suggeriva il poeta. L’animo mi sospinge
sempre innanzi, sempre insaziabile, sempre insoddisfatto dell’oggi e amante del
domani, curioso di quello che il nuovo giorno mi porrà dinanzi. Sarò sempre uno
spiantato, lo so, e ne vado fiero. Ho solide radici, ma Dio non ha creato il
luogo in cui fisserò la mia tenda. Sono libero e voglio rimanere libero, nella
testa prima ancora che nella corporeità. Ecco perché non ho mandato la mia
anima all’ammasso, nel frullatore del pensiero unico e unificante, quella
invisibile dittatura che ti dice, ti impone, come devi parlare (male), come
devi scrivere (peggio), come devi vivere e che cosa devi pensare. È quello
squallore del “come dire”, quelle due parole, quell’intercalare che usiamo,
anzi usate, a ogni piè sospinto, che avete ascoltato e appreso nelle stupide
trasmissioni televisive, il gergo che nasconde, a malapena, il vuoto, il flatus
vocis che si disperde nei discorsi senza senso, nei dibattiti demenziali e
nelle tribune elettorali, quelle nelle quali ognuno si proclama vincitore. Sul
ponte, dunque, sventola bandiera bianca. Ma non sul mio modesto fortino, in
vetta al quale, anzi, garrisce la bandiera di guerra. Nella vita, che ormai
volge al termine, ho spesso sbagliato e, per quel po’ che mi rimane, continuerò
a sbagliare; però l’ho fatto e lo farò dopo aver visto di persona, dopo essermi
perlomeno sforzato di studiare, di andare a vedere, mai fidandomi delle vulgate
massmediatiche e dei rapporti giornalistici, le une e gli altri scaturigini di
quella ignoranza che gronda grasso, mallevadori inconsapevoli di una grezza
eppure efficace propaganda, quella che ti spappola il cervello e te lo ricompone
ad uso e consumo di chi ha in uggia la cultura, il sapere. D’altra parte, un
popolo di pecoroni e di capre è co-essenziale al sistema. Verbigrazia, e solo
per dirne qualcuna, non ho mai fatto affidamento sulla comoda e banale
convinzione, che rimbalzando di bocca in bocca, in un crescendo di idiozie,
indica in Machiavelli il cinismo fatto persona e nella frase “il fine
giustifica i mezzi” la sintesi del suo pensiero. Un’estate mi imposi di
studiare il grande fiorentino, direttamente dalle sue opere, s’intende. Ero
giovane (anch’io lo sono stato): scoprii uno scrittore, uno scienziato della
politica, uno storico del tutto diverso rispetto ai pregiudizi consolidati da
secoli di malevolenze. Sia lode a Dio: non ho chinato la testa di fronte
all’ignoranza, ma l’ho usata per ragionare. A proposito, la frase “il fine
giustifica i mezzi” non l’ho trovata in nessuna opera del Machiavelli. A chi mi
dice “bravo, sai scrivere, hai una capacità innata” non ho mai risposto. E per
rispondere devo tornare con la mente all’ottobre del 1971, scuola media
“Raffaele Paolucci” in Vasto, quando mi cimentai nel primo compito in classe di
italiano. Voto: 5 e mezzo. La mazzata fu terribile, la pagella, di lì a breve,
più che lusinghiera, ma in italiano scritto arrancavo. Al ginnasio la mia
esposizione scritta era impantanata nella desolata mediocrità. La svolta al
liceo. Ma ho dovuto faticare. Laddove, all’epoca, prendere carta e penna era un
sacrifico, ora scrivere è per me un piacere impagabile. E amo scrivere, a ben
pensarci, sugli sconfitti, su quelli che sono stati condannati, senza appello,
dalla storia, o meglio dalla storiografia ufficiale. Machiavelli, appunto,
irrimediabilmente massacrato dalla vulgata popolare. E poi i briganti, le donne
stuprate dagli animosi bersaglieri, i soldati napoletani ammassati dai
Piemontesi nei campi di concentramento, i Vandeani sterminati mediante brutale
genocidio, gli insorgenti, quelli che, armati di forconi, resistevano, o
cercavano di farlo, ai Francesi e ai lecca-piedi autoctoni. Mi attardo, ancora,
a considerare l’infelice sorte dei bambini cui è negata la vita, diritto
primario conculcato dall’inesistente diritto all’aborto. Ho le mie idee e vado
avanti così. Ma nonostante questo, o forse proprio perché coltivo dei valori,
parlo con tutti, proprio tutti, per curiosità latina e magno-greca. Così, pur
considerando Lepanto un valore meta-storico, mi ritrovo, senza impaccio, a
prendere un caffè con un musulmano, con lui discutendo della presenza del
Crocefisso nelle aule scolastiche, e scoprendolo tra l’altro sulle mie
posizioni; a studiare gli scritti di Pasolini pur non riconoscendomi, se non in
minima parte, nelle sue opere; ad estasiarmi, io anti-risorgimentale, di fronte
all’eloquenza di Giuseppe Mazzini. Mi piacciono le persone intelligenti, quelle
che hanno qualcosa da dire, quelle che ti fanno pensare, quelle che non
ragionano penosamente per schemi o per pigrizia interiore. Senza volermi
paragonare al grande filosofo romano, è quell’atteggiamento di Seneca, mai disertore
rispetto alle proprie convinzioni, ma esploratore per conoscere e apprezzare
quello che di buono c’è dall’altra parte dello steccato. Al di là di questi
approdi, non ho spazio in questo consorzio umano, nel quale non mi riconosco.
Me ne andrò su un carro di fuoco, senza dare fastidio ad alcuno. La mia bara
sia avvolta dalla Bandiera. I pochi sanno di quale vessillo si tratti.
Giacinto Zappacosta
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