sabato 7 marzo 2015

ALLAN POE, IL GENIO

 




Al di là della vulgata che degrada Edgar Allan Poe ad un semplice e anonimo, banale direi, scrittore del genere horror, ci troviamo di fronte ad un intellettuale di spessore, scrittore, poeta e critico letterario. I romanzi (anche quelli che, per semplicità, possiamo chiamare polizieschi) sono la cornice entro la quale l’autore muove le fila di una trama mai scontata, al di fuori, o contro, una logica e un sistema narrativo prevedibili. Anzi, l’autore va oltre, fino a ribellarsi alle norme che, in re ipsa o per mera, stanca convenzione, sembrano governare l’agire umano. Norme e regole, appunto, che sussistono per chi vi si adagia, compiaciuto, come avviene per i più. “Così avere una memoria salda e attenersi fedelmente alle regole sono punti generalmente considerati come il meglio, il massimo del ben giocare. Ma è nei casi che si collocano fuori delle pure e semplici regole che si manifesta l’abilità dell’analista”. Le osservazioni e le trovate dei personaggi contestano, tra le altre cose, la validità stessa della statistica. Sentite questa: se io lancio i dadi ed ottengo un dato punteggio, poniamo cinque, perché al lancio successivo non posso ottenere un altro cinque? O meglio, chi o cosa, o quale teoria, quale calcolo può dirmi che al secondo lancio io non possa ottenere un altro cinque? O comunque indicarmi in termini probabilistici vari possibili esiti della seconda giocata? Il primo lancio, una volta effettuato, e una volta verificatone il risultato, appartiene al passato, è consegnato alla storia senza alcun gravame sul presente. “La narrazione che segue apparirà al lettore come una sorta di commento alle proposizioni ora enunciate”: così in un suo racconto.

Ecco quindi che quella impostazione filosofica si sostanzia nelle novelle, alcune delle quali assurgono a componimenti lirici. Vengono fuori la cultura classica, la conoscenza del greco antico e del latino, la raffinatezza nella scelta della metrica nelle poesie, che sono parte notevole della produzione letteraria dell’autore, come pure rivestono notevole interesse i saggi di critica e di estetica. Fra questi, con le iperboli proprie di un racconto vivace, “Come si scrive un articolo alla Blackwood”, una sorta di guida al bel comporre, ma soprattutto “Fondamento del verso” e “Filosofia della composizione”. La pretesa, non so quanto riuscita, ma senz’altro interessante sotto altro profilo, è quella di smontare, da un punto di vista logico, una qualsiasi opera letteraria; meglio ancora siamo alla costruzione di un’opera scegliendo e scartando, pezzo per pezzo, come in una bottega artigiana. “Tra parentesi, vi è noto che Godwin scrisse a ritroso il suo Caleb Williams? Egli dapprima imbrogliò il suo eroe in un groviglio di difficoltà, formando il secondo volume, e poi, nel primo, si sforzò ditrovare qualche modo di giustificare quanto aveva fatto" (“Filosofia della composizione”).

Siamo al rovesciamento dell’arte come intuizione di un’idea, sintesi a priori di forma e sostanza, siamo in zone inesplorate dell’estetica, siamo di fronte all’artista quale padrone assoluto delle sue scelte. L’arte come figlia dell’intelligenza. O forse siamo semplicemente di fronte ad un artifizio dialettico. Sempre e comunque interessante. “Gli scrittori – in modoparticolare i poeti – preferiscono far credere ch'essi compongono con una specie di sottile frenesia – con un'estatica intuizione – e certamente rabbrividirebbero di permettere al pubblico di vedere dietro la scena le elaborate e vacillanti crudezze del pensiero”. Eccoti, di conseguenza, e a mo’ di esempio, la genesi della poesia Il Corvo, la più generalmente nota tra le tante composte dall’autore. L’intenzione, dichiarata, e poi argomentata, è quella di dimostrare che nessuna parte di essa è dovuta al caso o all’intuizione e che “l’opera procedette, passo passo, con la precisione e la rigida conseguenza di un problema matematico”. La prima regola attiene all’estensione, atteso che se un’opera letteraria è troppo lunga per essere letta in una sola seduta, è giocoforza rinunciare all’effetto che è dato dall’unità d’impressione “perché interferiscono nella lettura le faccende del mondo e, così, ogni cosa in quanto totalità è subito distrutta”.  L’estetica crociana ne esce preventivamente annientata. Rimane da capire come si possa leggere e gustare la Divina Commedia in una unità di tempo.

Giacinto Zappacosta 

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