Sarò troppo ambizioso,
troppo esigente. All’antica, sicuramente, e me ne vanto. Il dato, ormai
antropologico, scavalca i sempre più traballanti recinti delle sigle politiche,
dei partiti vecchi e nuovi, delle segreterie che si riempiono solo in occasione
di grandi eventi, unifica, livella, inevitabilmente verso il basso, schiaccia,
annulla le individualità di valore, che pure esistono. Non so se ci siamo
ridotti ad una batteria di polli d’allevamento, come ammoniva Pier Paolo
Pasolini, schiavi, all’epoca, del consumismo, ormai superato e annientato nella
crisi globale, sostituito da quello che stiamo vivendo, la società liquida
senza punti di riferimento, ma una cosa è certa: l’approccio alla realtà, a
tutti i livelli, è falsato da una stanchezza mentale, da una obsolescenza
psicologica. Plasticamente, la scrivania dietro la quale siede il politico è lo
iato tra sé e il mondo circostante, è la barriera tra il mondo delle idee (in
senso tutt’altro che filosofico), dell’astrattezza delle chiacchiere, e il
mondo empirico, che, se non trasformato, vuole almeno essere un po’ migliorato.
“Stiamo seguendo con attenzione la vicenda, il problema esiste ma non va
strumentalizzato, non è tanto il reato in sé quanto la percezione presso la
cittadinanza”. Le allocuzioni, a beneficio di giornalisti e opinione pubblica,
sembrano venir fuori da un manuale, piuttosto scarno per la verità, concepito
da un casuista privo di fantasia. Allocuzioni che poi, invariabilmente,
approdano all’aggettivo “importante”, a sua volta valido a definire tutto. Ora,
il dubbio è che, antropologicamente strutturati come siamo, geneticamente
modificati forse in peggio, scambiamo la pratica cartacea, custodita
nell’apposito faldone rilegato in marocchino rosso, con la fisicità dei
problemi, dei nodi che attendono di essere sciolti.
Giacinto Zappacosta
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