L’agonia, dapprima
lenta, ha subito un’accelerazione. Colpisce, a tutti i livelli ed in ogni
ambiente, la mancata consapevolezza del disvalore, degli errori e degli orrori
quotidiani che stanno massacrando la nostra meravigliosa lingua, l’idioma
stupendo del quale dovremmo essere orgogliosi. Una lingua, consegnata alla
storia e alla memoria dei pochi, che vivrà nei libri, affastellata nella
desolazione di biblioteche polverose.
Qualche anno fa, mi
permisi di correggere uno scritto vergato da una persona laureata. Un ‘qual’ è’,
scritto proprio così, con un antiestetico e improponibile apostrofo, ferì il
mio occhio e la mia sensibilità. Coi dovuti modi, feci notare, argomentando
circa la differenza tra troncamento ed elisione, la impellente necessità, direi
l’obbligo morale, prima che linguistico, di una correzione. In effetti,
l’apostrofo scomparve immantinente, ma senza quell’intima consapevolezza, ed è
questo il punto, senza la percezione delle scaturigini dell’atto ripartivo. Senza
parafrasi, la persona, autrice del traballante elzeviro, non aveva capito un
cavolo. Né poteva.
Ho sempre sostenuto, e
mi vado rafforzando nella mia convinzione, che l’ignoranza sia il luogo
geometrico del consenso, anche elettorale, dell’aggregazione a buon mercato.
Vera e propria ideologia, con i suoi dogmi, riti ed organizzazione capillare,
la non-conoscenza che massacra e stupra tutto quello che c’è di bello. A
proposito di stupri, sono ormai entrati nel gergo quotidiano la orribile
espressione ‘la donna abusata’e similari. Vale la pena far notare che il verbo
‘abusare’ in quanto intransitivo non può essere reso al passivo? È il caso di
suggerire la correzione in ‘donna vittima di abuso’? No, rinuncio. Come
rinuncio a spendere parole su un altro orrore nel quale ho avuto la disgrazia
di imbattermi, la domanda che mi è stata rivolta più volte, senza che io avessi
la forza o capacità di intervento. Sentirsi chiedere, più volte, con
insistenza, ‘l’hai complimentata?’ è stato per me imbarazzante.
Come imbarazzante è
sentire, nel parlamento italiano, da persone che ci rappresentano e che
decidono sulle nostre sorti, frasi del tipo ‘ha parlato che’, così come offende
quell’uso barbaro della ripetizione del complemento oggetto in proposizioni
strampalate. ‘Tizio, che io lo conosco’, ‘Tizio e Caio, le cui storie non le
conociamo’ sostituiscono ormai le ovvie incidentali di qualche tempo fa.
L’elenco, ampiamente
incompleto, rende testimonianza del degrado cui abbiamo condannato la nostra
parlata, degrado che accompagna l’imbarbarimento di una civiltà smarrita,
forse, per sempre.
Giacinto Zappacosta
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