domenica 25 ottobre 2015

Vogliamo provare a dirlo in altro modo?

La ricerca, costante, tende inesorabilmente alla frase ridondante, caotica, iper-barocca, lunga, con incisi estesi al punto da annullare la proposizione principale. I nostri critici letterari, nella presentazione o prefazione di un libro, e comunque nello scrivere di letteratura, non riescono a liberarsi da quell’idea, un po’ provincialotta, che per accostarsi ad un autore sia giocoforza imbastire un rincorrersi di immagini imbrogliate (mi verrebbe da dire: de-semplicizzate), di orpelli, di inutili complicazioni. Spostando solo un attimo il discorso, ma a conferma di quello che vado esplicitando, non potrò mai dimenticare il colossale manuale di diritto amministrativo scritto da Massimo Severo Giannini, nel quale, ad un certo punto, si chiude una parentesi e, senza soluzione di continuità, se ne apre un’altra. Nemmeno in algebra esiste un passaggio del genere, né si sono spinti a tanto i futuristi. Che differenza con le Institutiones di Gaio. E si tratta del diritto col quale i Romani governarono il mondo. Tornando a noi, se l’arte è intuizione pura (Croce, De Sanctis), vorrei aggiungere, e non suoni banale, “semplice”, se la letteratura, in particolare, è espressione di una civiltà, anima di una Nazione, alta forma educativa per un popolo (Mazzini), allora perché nascondere una produzione artistica nelle nebbie del fatuo? Perché isterilire un autore presentandolo con una pesantezza di toni che non trasmette niente? Ecco un esempio: “L’origine propriamente fisica di Usher e di Lady Madeline si perde nelle ramificazioni – e qui, come sempre, è assai facile distinguere il puro valore di rabesco che quelle informa nel racconto- d’una genealogia complicata di squilibrati, dove la definizione non ha nulla di patologico né, comunque, alcun riferimento a un fatto contingente, ma solo denota la direzione in cui andrebbe ricercata l’intimità della loro natura”. Vogliamo provare a dirlo in altro modo?  “L’autore (si tratta di Edgar Allan Poe) proietta i personaggi e se stesso, quale narratore, in una dimensione dominata dallo squilibrio interiore: ne scaturisce una narrazione fantastica, fatta di immagini irreali, o surreali, fiabesche, a volte poetiche”. Ci vuole tanto?


Giacinto Zappacosta

riproduzione vietata

Nessun commento:

Posta un commento