martedì 20 settembre 2016

A TARANTO SI MUORE (NON SOLO PER L'ILVA)


La direzione aziendale ha parlato di fatalità. Come se fosse normale il fatto di un giovane operaio che entra nello stabilimento per un intervento urgente e ne esce cadavere. Come, in aggiunta, se fosse la prima volta.
Quando ancora si chiamava Italsider, era il punto di forza del capitalismo indotto dallo Stato italiano, dell'imprenditoria pubblica capace, così era nella propaganda dell'epoca, di un riscatto e di un rilancio dell'intero Mezzogiorno. Nel momento in cui si concretizzò il progetto e fu individuato il sito, a ridosso del Mar Piccolo, nessuno pensò di alzare la mano e di dire: siamo sicuri di quello che stiamo facendo? Tutti tacquero. La classe politica pensava alla distribuzione dei posti di lavoro nella logica del facile scambio a suon di voti, i sindacati alla crescita in termini di tessere da gestire, e la città intera ad una crescita all'infinito. Lavoro per tutti, lavoro sicuro da tramandarsi di generazione in generazione. Gli ambientalisti non dissero niente, semplicemente perché, all'epoca, non esistevano.
Mentre in tutta Taranto, la città nella quale vivo e che amo, prima di stendere il bucato bisogna liberare lo stendino, o l'apposito filo, dalle polveri vomitate dalle ciminiere, si vive (e si muore di tumore) senza prospettive, nessuno sa cosa fare.
Una città bellissima, abbandonata a se stessa. 

Continua

Giacinto Zappacosta

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