È la componente maggioritaria all’interno
del fronte del sì al referendum. L’argomentare è lineare, semplice, accattivante.
Votiamo sì per cambiare. La frase coagula consensi, al punto che mi convinco
sempre di più, sperando di sbagliare, che all’alba del 5 dicembre raccoglieremo
i cocci di quello che rimane della sovranità popolare. Dovrebbe valere il
principio, deve valere il principio che la potestà legislativa è di diretta
emanazione del corpo elettorale: le elezioni di secondo grado per quanto
attiene il senato, ridotto ad una sottospecie di dopolavoro, sono un pugno in
un occhio all’idea stessa che gli Italiani, in quanto comunità, siano gli unici
a decidere chi debba emanare le leggi. In pratica, siamo chiamati ad
auto-espropriarci della facoltà di scegliere i senatori. E non si tratta di una
bazzecola.
Rimane da capire, ma c’è poco da
capire, il vulnus che verrebbe a crearsi (art. 24 della legge di riforma) in
riferimento al potere di scioglimento delle camere (art. 88 dell’attuale
carta), che spetta al presidente della repubblica, potere che, nella
costituzione novellata, sarebbe limitato alla sola camera dei deputati. Con tutti i pasticci che ne seguirebbero.
Di fronte a tutto questo, e ad
altro ancora, a cominciare dal consolidarsi del potere affaristico, si risponde
con l’assioma (falso) in base al quale l’impellenza del cambiamento a tutti i
costi debba prevalere. Il delirio è nella ripetizione pappagallesca: se non si
riesce questa volta, dovremo aspettare trent’anni. L’apoftegma, coniato da quel
genio di Renzi, trova spazio nell’animo delle capre. Che sono tali perché non
ragionano, perché sono ignoranti, perché, senza accorgersene, sono alla mercé
del potere politico-bancario. Semplicemente, la controreplica è: perché trent'anni?
Buon referendum a tutti.
g.z.
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