L’eufemismo
È un figura
retorica molto semplice e di facile comprensione. L’etimologia, che come sempre
rimanda alla lingua di Platone e Aristotile, sta a significare, traducendo un
po’ liberamente, un bel parlare, o un parlare a fin di bene. Per esempio, se
voglio alleggerire il discorso, sottacendo riferimenti troppo forti o
sconvenienti, sostituisco l’espressione propria con un’altra analoga ma di
significato attenuato. L’uso dell’eufemismo si riscontra spesso nella lingua
parlata comune, come nel dire ‘non-vedente’ in luogo di ‘cieco’, ‘non-udente’
invece di ‘sordo’, e così via. Classico è l’espediente di non nominare la morte
parlando di ‘passaggio a miglior vita’. Più elegante, senz’altro, una frase del
Manzoni, un maestro della lingua italiana: ‘gli legano i polsi con certi ordigni, per quell’ipocrita
figura d’eufemismo, chiamati manichini’.
Altro esempio, che però sconfina in un’altra figura, l’antonomasia, che
analizzeremo la prossima volta, è nell’ indicare come ‘l’avversario’ quello che
in realtà è il Diavolo. Stesso discorso per l’imprecazione ‘diamine’, che fa
appunto riferimento all’angelo decaduto.
È chiaro che posso ricorrere all’eufemismo anche in chiave ironica, come
in un’espressione del tipo ‘ho visto di meglio, ho ascoltato di meglio’. E così
all’infinito.
Giacinto
Zappacosta
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