domenica 9 ottobre 2016

LEZIONI DI RETORICA /17


Considerazioni finali

Un lungo e spero interessante percorso ci ha condotti attraverso le bellezze della nostra lingua, ad apprezzare, in particolare, le varie figure retoriche che la arricchiscono di tante sfumature. Dicevo, allora, come il linguaggio sia la più alta forma d’arte. Posso soffermarmi, adesso, a considerare come il nostro idioma sia l’espressione più alta di linguaggio, capace di sostenere e rendere poesie di elevata fattura (è sufficiente nominare Dante, Petrarca, Leopardi, Foscolo e Manzoni?), romanzi, opere letterarie in genere, ma anche scritti di carattere scientifico, filosofico e quanto altro ancora. Spero di aver suscitato, nel corso del tempo, un interesse nel pubblico, con rigorosa e preventiva esclusione delle capre, irrimediabilmente elette quali demolitrici della lingua, in particolare, e della cultura, in generale. Quelle stesse capre i cui apoftegmi, propalati attraverso face book, vera disgrazia del nostro secolo (aveva ragione, forse solo in questo, Umberto Eco), risuonano in improbabili frasi: ‘l’hai complimentata, la donna abusata’ ed altre imbecillità di pari o superiore spessore. Per non parlare degli errori di ortografia, a cominciare da ‘e né’. Prima che muoia la lingua, epifenomeno di un decadimento più generale, soltanto altre due considerazioni. I Romani, Quintiliano sopra tutti, avevano elaborato una solida retorica, le cui figure erano quindi indicate con nomi latini. Il punto, sul quale varrebbe la pena spendere un discorso a parte, molto articolato, è che quelle figure retoriche, con la sola eccezione dell’allitterazione, vengono indicate da noi Italiani, diretti eredi della cultura latina, con termini di chiara origine greca, prima fra tutti lo zeugma, vocabolo del tutto omofono rispetto alla lingua ellenica antica. Evidentemente, ma è solo un accenno rispetto ad una più ampia problematica, ricca di spunti, la valenza della cultura greca si estende fino a noi, uomini e donne di quest’epoca residenti in Italia. L’altra considerazione è di ordine metodologico. Ho analizzato, su queste colonne, diciotto figure retoriche, tralasciando quelle che, pur se elaborate da sicura dottrina e consolidatesi nel tempo, mi paiono essere inutili ripetizioni, doppioni di forme espressive dalle quali differiscono solo per la denominazione. Ad esempio, l’isocolo, di cui non mi sono occupato, è perfettamente riconducibile, a mio avviso, all’allitterazione, come d’altra parte l’anadiplosi, sulla quale ultima parimenti non mi sono soffermato. Isocolo, anadiplosi ed allitterazione che di conseguenza potremmo ricondurre ad unità. In buona sostanza, anche in retorica, come in diritto e in tutte le scienze, vale la regola del rasoio di Occam, in base alla quale ‘entia non sunt multiplicanda praeter necessitatem’, gli enti, le categorie non vanno moltiplicati al di là della necessità. Il lettore può comunque farsi un’idea personale studiando per proprio conto le diverse forme oratorie. Non mi rimane che ringraziarvi. Buona lingua italiana a tutti. 

Giacinto Zappacosta


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