Lo
stravolgimento è nella logica, prima ancora che nel diritto. Il quesito,
ruffiano e capzioso, ci chiede in realtà, scrostando un po’ le belle
espressioni vergate sulla scheda, se noi, popolo sovrano, vogliamo rinunciare
ad eleggere i senatori e demandare questo compito ai partiti, al potere. In
altri termini, siamo chiamati ad abdicare ad una fetta consistente della nostra
possibilità di scelta. E noi, secondo loro, dovremmo dire sì.
Molto
più lineare e razionale sarebbe stato abolire del tutto il senato: avremmo
evitato i contorcimenti verbali a definire, malamente, le competenze delle due
camere. In Italia, ciò che è semplice, diretto, perfino evidente, viene
ascritto nella categoria del banale. Siamo in questi termini. Con una sola
camera, eletta dal popolo, avremmo avuto, in un colpo solo, meno parlamentari
(315) ed un iter legislativo assai più snello. Renzi ed accoliti hanno
preferito tenere al guinzaglio, mercé i relativi benefici, un cospicuo
drappello di sindaci e consiglieri regionali, che ben si presterà a
salvaguardare le terga del capetto di turno, oltre che le proprie, come ovvio
che sia.
Né
è accoglibile la vulgata renziana, opzione tattica maturata in queste settimane, in base alla quale bisogna occuparsi del merito, del quesito
referendario, non di altro. Altra falsità. La valutazione sulla riforma non ha
i contorni di un giudizio asettico, separato dalla realtà politica nella quale
viviamo oggi, qui, ma va inserita, inevitabilmente, in un contesto più ampio.
Ampio quanto gli intrallazzi bancari, per esempio, ampio quanto l’involuzione della
politica verso forme di azionariato affaristico popolato da persone senza
scrupoli e senza verecondia, ampio, nella sua imponenza, quanto le vicende
della banca Etruria e del babbo boschiano. Tutti epifenomeni che andrebbero ad
ingigantirsi e a rinvigorirsi all’indomani di una vittoria dei sì. Bella
prospettiva, non c’è che dire.
Ci ritroveremmo quindi, all’alba del 5 dicembre, a
fare i conti col consolidamento della oclocrazia, già imperante, nonché coi
pasticci di una carta costituzionale malfatta. Vediamo un caso: partiamo
dall’articolo 24 della legge di riforma costituzionale, recante “Scioglimento della
Camera dei deputati”. Siamo al dilettantismo, finalizzato, però, lucidamente,
alla conservazione del potere che gronda grasso (di maiale). Leggiamo: “All'articolo 88 della Costituzione, il
primo comma è sostituito dal seguente: Il Presidente della Repubblica può, sentito il suo
Presidente, sciogliere la Camera dei deputati”. Per raffronto, leggiamo l’articolo
88 della vigente carta: “Il Presidente della Repubblica può, sentiti i loro Presidenti,
sciogliere le Camere o anche una sola di esse”. Questo significa, in pratica,
che, se dovesse averla vinta il trio Renzi-Boschi-Verdini, il Presidente della
Repubblica potrà sciogliere solo la Camera dei Deputati, non il Senato. Non è
cosa di poco conto. Chi ha dimestichezza col diritto costituzionale, con
esclusione quindi delle capre, che pure votano (sono la maggioranza), conosce la lezione di Costantino Mortati (era amico
loro, non mio, almeno da un punto di vista politico), che illumina sul compito,
molto delicato, che l’attuale ordinamento assegna al capo dello stato, quello
di sciogliere, appunto, una oppure, come è accaduto sempre, tutt’e due la
camere. Si tratta dell’iter propedeutico alle elezioni anticipate, così
spesseggianti nella prima repubblica. L’argomentare dell’illustre
costituzionalista è così riassumibile (lo dico anche a beneficio dei
democristiani, soprattutto, per esempio Casini, che dimostrano una assoluta
ignoranza sul punto): può accadere che, col passare del tempo, non ci sia più
un idem sentire tra corpo elettorale ed eletti; il capo dello stato, allora,
scioglie il parlamento e si va a nuove elezioni. Cioè, in altri termini, senza
che nessuno si scandalizzi, il parlamento può non essere più rappresentativo
rispetto al popolo sovrano. In questo caso, secondo Renzi, il presidente della
repubblica scioglie la camera dei deputati, ma non il senato, con la orribile conseguenza
che, magari, in quest’ultimo c’è una data maggioranza, mentre nel primo,
seguito elezioni, si instaura una maggioranza diversa. Sarebbe la paralisi
istituzionale. Che Dio ci aiuti (e ci liberi dalle capre).
Giacinto Zappacosta
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