mercoledì 2 novembre 2016

LEZIONI DI RETORICA. L'ENDIADI


Nel lungo excursus attraverso la nostra amata lingua, una parlata così nobile e della quale dovremmo essere orgogliosi, ho dimenticato, e ne chiedo venia, di soffermarmi sull'endiadi, una figura retorica molto particolare. 
Come abbiamo imparato, l'etimologia, l'origine semantica, rimanda in questo campo sempre al greco, tranne che per l'allitterazione, vocabolo di derivazione latina. Endiadi, dunque, significa "uno per mezzo di due", cioè un unico concetto espresso attraverso due termini. 
Il più delle volte, l'esempio al quale si ricorre è leopardiano, con quella espressione "notte e ruina" che sta per "tenebrosa rovina". A me, per ricordo scolastico, ancora vivo fortunatamente, viene in mente Virgilio, che nell'Eneide fa dire a Mercurio "varium et mutabile semper femina". Siamo in presenza di un impareggiabile esempio di endiadi: la donna è sempre un essere estremamente volubile. Chiedo scusa alle signore, ma è un dio a parlare, un dio che dice ad Enea, in pratica, vattene prima che Didone, donna appunto, ci ripensi ed annulli il permesso di salpare da Cartagine.
Analizziamo. Il poeta fa ricorso a due aggettivi, varium e mutabile, per significare un unico concetto, rafforzandolo. Ne viene fuori, nella traduzione che ho proposto, l'enfasi sul concetto di volubilità.
Quindi, per concludere, l'endiadi consiste in una espressione linguistica nella quale due termini, normalmente subordinati, vengono resi come coordinati.
Per inciso. Non meravigli, nel verso virgiliano, la concordanza di due aggettivi declinati al neutro col sostantivo femina, che è di genere femminile. In questi casi, la qualità espressa dal neutro, così come ho fatto io, va accompagnata ad un sostantivo come "essere" o similare.

Giacinto Zappacosta     

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