venerdì 20 gennaio 2017

MANGIAVAMO LA GRAMBA LUPINA, LE GIORGE E LA RIQUILIZIA


Un pallone, costo 500 lire, più o meno l’equivalente di 25 centesimi espressi col nuovo corso, era tutto quello che ci occorreva. Se poi a questo si aggiungeva la maglia della squadra del cuore, allora era il massimo. Per il resto, lo scenario, che all’epoca davamo per scontato, per immutabile, era la gratuità elargita dalla bontà divina, la quale ci regalava un campetto, poco più di una radura in mezzo agli olivi. E tutti a correre dietro al pallone, sbucciandoci quotidianamente le ginocchia, ferite che di notte si rimarginavano per riaprirsi, puntualmente, all’indomani.
Durante la bella stagione, a piagare le gambe concorrevano le ortiche, che affrontavamo con l’audacia di bambinetti impavidi e temerari, contenti di gironzolare tra timide lucertole da poco uscite dal letargo. Almeno così ci spiegava la maestra. Capitava, talvolta, di vedere dei serpenti, e allora discussioni a non finire, senza approdare a nulla, per stabilire se si trattasse di vipere o altro. L’alta disputa, come ovvio, sarebbe stata portata, per la sua composizione, il giorno dopo, all'attenzione della nostra insegnante.
I campi, sconfinati, che sembravano estendersi dal mare al monte, tra dirupi, avvallamenti, rivoli d’acqua, canneti colonizzati dalla volpe, che comunque si sottraeva sempre al nostro sguardo, ci offrivano, col caldo, di che mangiare. Fasci di gramba lupina (erba sulla) e radici di riquilizia (liquirizia), individuati con occhio esperto, ci rendevano satolli fino all’inverosimile. Il tutto colto e mangiato lì per lì, senza lavare. Per la liquirizia, che un attimo prima giaceva un bel palmo sottoterra, era sufficiente passarvi la mano per eliminare l’accumulo di humus. Un po’ più complicato era trovare le giorge, che non ricordo come si chiamino in italiano, frutti offerti con generosità da alberi imponenti, dei quali conoscevamo l’esatta ubicazione.
In primavera inoltrata, arrivavano le lucciole. La sera tardi, col buio, inseguiti dai richiami delle nostre madri, tra le siepi, le catturavamo tenendole per un po’ tra le mani unite: le osservavamo emettere una luce misteriosa della quale, d’altra parte, non ci interessava l’origine (forse per questo la maestra non ce ne aveva mai parlato), ma che, ed è l’importante, ci affascinava. Poi le lasciavamo volare via.
Ora le lucciole non ci sono più, come è già stato scritto autorevolmente. Nessuno però ha ancora scritto che  anche quella radura in mezzo agli olivi non c’è più.

Giacinto Zappacosta


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