Ricevo da Michele Celenza
A noi, che siamo rami della stessa pianta
1. Non mi permetto di entrare, neanche per idea, sull’aspetto
privato di questa vicenda infernale; ma su quello pubblico sì. E che sia una
questione di evidenza pubblica è sin troppo palese: per il modo in cui le morti
sono avvenute, entrambe in strada; per la campagna, pubblica, a seguito della
morte di Roberta; infine per l’eco che ha trovato sui giornali, locali e
nazionali.
Ecco, l’eco sui giornali. I
commenti. L’interpretazione di tutta la vicenda mi pare questione di estremo
rilievo per l’intera comunità cittadina: oltre a costituire una prima fase di
elaborazione del lutto, essa sarà di certo anche un tappa obbligata nella
formazione dell’autocoscienza collettiva.
2. Cominciamo con una questione scomoda, di quelle che i giornali
di solito non affrontano, forse perché va molto al di là del quotidiano: il
rapporto tra il diritto e la giustizia. Oggi è invalso l’uso di intendere sotto
il nome di “giustizia” l’intera macchina giudiziaria; e, parallelamente, di attribuire
al concetto di giustizia un contenuto meramente procedurale. È un processo
insieme di neutralizzazione e di
radicale secolarizzazione, attraverso il quale la giustizia tende ad essere
interamente sussunta nelle legalità.
Dico “tende” perché, per quanto
radicale esso possa essere, questo processo non perverrà mai, in Europa, alla
perfetta identificazione tra i due concetti. Un processo diametralmente
opposto, per fare un esempio, è quello che appare in corso nei paesi arabi,
dove è la legalità, nella specie della legge islamica, ad essere assorbita
nella giustizia, coranica. In Europa no: il cerchio non si chiude. Nella nostra
cultura tra giustizia e legalità, per quanto brevi o lunghi siano i tempi di
quest’ultima, ci sarà sempre uno scarto. È per questo che siamo europei.
3. Facciamo un esperimento: si vada sul web, si digiti: “Giustizia
per Franco”, oppure per Antonio, per Giovanni, per Maria, per Giuseppe… Si
troverà regolarmente un sito, una pagina facebook, un comitato che da qualche
parte in Italia si batte per ottenere “giustizia” per qualcuno.
Giacché se tra legalità e
giustizia c’è uno scarto, allora è perfettamente ovvio che qualcuno gli dia
voce. Perfettamente ovvio, dunque, e tutt’altro che “incomprensibile”, come
invece ha dichiarato il procuratore capo della Repubblica Giampiero Di Florio,
che a Vasto si avviasse la campagna “Giustizia per Roberta”. La si è
interpretata come un segno di “povertà di spirito”[1], di
“presunzione”[2], di “istigazioni all’odio”[3], di
“populismo penale”[4], la si è dipinta persino
come “la miserabile solidarietà della parte peggiore e più plebea del paese”[5].
È vero il contrario. A questa
campagna non ho partecipato in modo alcuno; ma mi pare di poter fondatamente
affermare che il così ampio seguito essa ha incontrato nella nostra città è
segno, oltre che dell’oggettiva gravità dell’accaduto, dell’esistenza di un
autentico legame di umana solidarietà tra i cittadini. (Va da sé che, come ho
detto all’inizio di questo scritto, non considero gli aspetti privati della
questione. Di questi ognuno risponde per proprio conto).
4. Qualunque cosa si intenda per “giustizia”, lo scarto tra diritto
e giustizia nella nostra cultura non si chiude. È uno skàndalon, un inciampo, una ferita aperta sotto gli occhi di tutti,
cui Fabio Di Lello non ha retto, a cui ha voluto privatamente, orribilmente,
mettere fine.
Ma così ne ha provocato un altro,
verso cui l’umana solidarietà non può essere minore.
5. La civiltà europea, che quello scarto l’ha riconosciuto, anzi
l’ha inventato, ha anche trovato una categoria per descriverlo. Essa è la
categoria del tragico. Di “tragedia”, a proposito dei fatti in questione, ha
parlato in un’intervista, in verità senza molto costrutto, Marco Revelli[6].
“Tragedia” è in effetti un termine ormai frusto, logorato com’è da decenni di
uso casuale o improprio. Ma su quanto è accaduto a Vasto mi pare una categoria
che fa luce.
6. Il tragico ha una radice antica, che valica i millenni, e che è
parte costitutiva, e archetipica, della nostra civiltà.
È tragica la dicotomia antinomica
tra due princìpi, due forze che pur riconoscendosi, restano tra loro
inconciliabili.
È tragico lo scontro non
dialettico tra Thémis, la legge non
scritta, la giustizia pre-politica del dêmos,
e Díkê, il diritto, la giustizia
formulare della pólis.
È tragica la presenza ricorrente
del coro (“la forte complicità ambientale”, “la folla che si fa tribunale
cieco” di cui parlano i giornali[7]) che,
in controtempo, richiama a quella radice pre-politica.
È tragico il legame a lungo ribadito
con le Erinni, le potenze ctonie della Vendetta, che chiedono di essere
placate…
7. Nella nostra città si è dunque consumata una vicenda che, come
il nostro popolo, ha radici antiche. A noi, che siamo rami della stessa pianta,
il dovere, verso tutti, del rispetto e della pietà.
Michele Celenza
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