lunedì 6 febbraio 2017

Alcune riflessioni sul caso dell'omicidio di Vasto


Ricevo da Michele Celenza

A noi, che siamo rami della stessa pianta

1. Non mi permetto di entrare, neanche per idea, sull’aspetto privato di questa vicenda infernale; ma su quello pubblico sì. E che sia una questione di evidenza pubblica è sin troppo palese: per il modo in cui le morti sono avvenute, entrambe in strada; per la campagna, pubblica, a seguito della morte di Roberta; infine per l’eco che ha trovato sui giornali, locali e nazionali.
Ecco, l’eco sui giornali. I commenti. L’interpretazione di tutta la vicenda mi pare questione di estremo rilievo per l’intera comunità cittadina: oltre a costituire una prima fase di elaborazione del lutto, essa sarà di certo anche un tappa obbligata nella formazione dell’autocoscienza collettiva.

2. Cominciamo con una questione scomoda, di quelle che i giornali di solito non affrontano, forse perché va molto al di là del quotidiano: il rapporto tra il diritto e la giustizia. Oggi è invalso l’uso di intendere sotto il nome di “giustizia” l’intera macchina giudiziaria; e, parallelamente, di attribuire al concetto di giustizia un contenuto meramente procedurale. È un processo insieme di neutralizzazione  e di radicale secolarizzazione, attraverso il quale la giustizia tende ad essere interamente sussunta nelle legalità.
Dico “tende” perché, per quanto radicale esso possa essere, questo processo non perverrà mai, in Europa, alla perfetta identificazione tra i due concetti. Un processo diametralmente opposto, per fare un esempio, è quello che appare in corso nei paesi arabi, dove è la legalità, nella specie della legge islamica, ad essere assorbita nella giustizia, coranica. In Europa no: il cerchio non si chiude. Nella nostra cultura tra giustizia e legalità, per quanto brevi o lunghi siano i tempi di quest’ultima, ci sarà sempre uno scarto. È per questo che siamo europei.

3. Facciamo un esperimento: si vada sul web, si digiti: “Giustizia per Franco”, oppure per Antonio, per Giovanni, per Maria, per Giuseppe… Si troverà regolarmente un sito, una pagina facebook, un comitato che da qualche parte in Italia si batte per ottenere “giustizia” per qualcuno.
Giacché se tra legalità e giustizia c’è uno scarto, allora è perfettamente ovvio che qualcuno gli dia voce. Perfettamente ovvio, dunque, e tutt’altro che “incomprensibile”, come invece ha dichiarato il procuratore capo della Repubblica Giampiero Di Florio, che a Vasto si avviasse la campagna “Giustizia per Roberta”. La si è interpretata come un segno di “povertà di spirito”[1], di “presunzione”[2], di “istigazioni all’odio”[3], di “populismo penale”[4], la si è dipinta persino come “la miserabile solidarietà della parte peggiore e più plebea del paese”[5].
È vero il contrario. A questa campagna non ho partecipato in modo alcuno; ma mi pare di poter fondatamente affermare che il così ampio seguito essa ha incontrato nella nostra città  è segno, oltre che dell’oggettiva gravità dell’accaduto, dell’esistenza di un autentico legame di umana solidarietà tra i cittadini. (Va da sé che, come ho detto all’inizio di questo scritto, non considero gli aspetti privati della questione. Di questi ognuno risponde per proprio conto).

4. Qualunque cosa si intenda per “giustizia”, lo scarto tra diritto e giustizia nella nostra cultura non si chiude. È uno skàndalon, un inciampo, una ferita aperta sotto gli occhi di tutti, cui Fabio Di Lello non ha retto, a cui ha voluto privatamente, orribilmente, mettere fine.
Ma così ne ha provocato un altro, verso cui l’umana solidarietà non può essere minore.

5. La civiltà europea, che quello scarto l’ha riconosciuto, anzi l’ha inventato, ha anche trovato una categoria per descriverlo. Essa è la categoria del tragico. Di “tragedia”, a proposito dei fatti in questione, ha parlato in un’intervista, in verità senza molto costrutto, Marco Revelli[6]. “Tragedia” è in effetti un termine ormai frusto, logorato com’è da decenni di uso casuale o improprio. Ma su quanto è accaduto a Vasto mi pare una categoria che fa luce.

6. Il tragico ha una radice antica, che valica i millenni, e che è parte costitutiva, e archetipica, della nostra civiltà.
È tragica la dicotomia antinomica tra due princìpi, due forze che pur riconoscendosi, restano tra loro inconciliabili.
È tragico lo scontro non dialettico tra Thémis, la legge non scritta, la giustizia pre-politica del dêmos, e Díkê, il diritto, la giustizia formulare della pólis.
È tragica la presenza ricorrente del coro (“la forte complicità ambientale”, “la folla che si fa tribunale cieco” di cui parlano i giornali[7]) che, in controtempo, richiama a quella radice pre-politica.
È tragico il legame a lungo ribadito con le Erinni, le potenze ctonie della Vendetta, che chiedono di essere placate…

7. Nella nostra città si è dunque consumata una vicenda che, come il nostro popolo, ha radici antiche. A noi, che siamo rami della stessa pianta, il dovere, verso tutti, del rispetto e della pietà.

Michele Celenza




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