giovedì 9 febbraio 2017

LA MIA LINGUA, L’ITALIANO, E IL MIO DIALETTO NON MI SOPRAVVIVERANNO


Non sappiamo scrivere, non sappiamo leggere. Nel disinteresse totale

È tutto strutturato, con una sua intima, forte logica. La lingua, la forma più alta di arte, è l’anima di un popolo, cultura che si rinnova e si irrobustisce giorno per giorno nelle aule scolastiche ed universitarie, come nei vicoli, nelle piazze e nei mercati. Che si tratti dell’idioma italiano, nobile nelle sue origini, saldo nei suoi contenuti, ricco nelle sue sfumature, o della parlata locale, retaggio peculiare di una comunità, il discorrere e lo scrivere sono il luogo di un vero e proprio patto sociale nel quale si identifica una pluralità di individui. Questo patto oggi è rotto, irrimediabilmente. Non sappiamo più scrivere, non sappiamo più parlare. Lo sto dicendo e scrivendo da anni. Gli errori di grammatica, di ortografia e di sintassi non si contano più e d’altra parte non vale nemmeno più la pena elencarli in una lista che non farebbe ridere nessuno, visto che abbiamo perso il senso del disvalore in ordine a quello che promana dalla nostra bocca o dalla nostra penna.
Quando leggo in un’ordinanza di un giudice “ma bensì”, due congiunzioni con valore avversativo messe inopinatamente l’una vicino all’altra, quando un avvocato verga “affianco”, inteso come stato in luogo, allora prendo atto della tragedia che si sta consumando. E poi, possibile che non si riesca a capire che l’espressione “donna abusata”, al di là del fatto cui rimanda, sia un orrore, un’aberrazione? Per rendersene conto, basta aprire il vocabolario alla voce “abusare”. Non lo farà nessuno, perché i lemmi sono affastellati disordinatamente nella nostra mente ormai insensibile a questo tipo di problematiche.
Ma come siamo giunti a questo? Al fondo, c’è una insofferenza per le regole, di qualsiasi tipo siano, morali, comportamentali, giuridiche, regole avvertite come una sovrastruttura di cui liberarsi, un inutile orpello, buono, nella migliore delle ipotesi, per tempi che non torneranno più. Diversa è l’evoluzione (o involuzione?) del dialetto, per forza di cose esposto a contaminazioni di ogni tipo, a cominciare dalla emigrazione interna e dalla osmosi con una infinità di parlate. Eppure, mi rattrista il fatto che stia venendo meno la seconda lingua, quella che abbiamo imparato, noi anziani, parallelamente all’italiano, quei suoni e quelle espressioni particolari che ti fanno riconoscere, o ti facevano riconoscere, come barese, tarantino, vastese o milanese. Amo il dialetto, lo coltivo, in perfetta solitudine, ripassandone mentalmente vocaboli e modi di dire, aggiungendo qualche vocabolo che scopro di tanto in tanto grazie a chi, per età, ne sa più di me. Per noi Vastesi, meriterebbe un discorso a parte, ben più ampio, il lombardesco, dialetto parallelo molto specifico. Ma voglio limitarmi all’essenziale. Che consiste in questo, alla fin fine: l’appartenenza ad un determinato gruppo linguistico ti dava il senso, vero, autentico, concreto, di far parte di un gruppo, particolare o nazionale. La società in forma liquida ha cassato anche l’ultimo baluardo, estremo locus resistentiae. Amen.



Giacinto Zappacosta

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