Non
sappiamo scrivere, non sappiamo leggere. Nel disinteresse totale
È tutto strutturato,
con una sua intima, forte logica. La lingua, la forma più alta di arte, è
l’anima di un popolo, cultura che si rinnova e si irrobustisce giorno per
giorno nelle aule scolastiche ed universitarie, come nei vicoli, nelle piazze e
nei mercati. Che si tratti dell’idioma italiano, nobile nelle sue origini,
saldo nei suoi contenuti, ricco nelle sue sfumature, o della parlata locale, retaggio
peculiare di una comunità, il discorrere e lo scrivere sono il luogo di un vero
e proprio patto sociale nel quale si identifica una pluralità di individui.
Questo patto oggi è rotto, irrimediabilmente. Non sappiamo più scrivere, non
sappiamo più parlare. Lo sto dicendo e scrivendo da anni. Gli errori di
grammatica, di ortografia e di sintassi non si contano più e d’altra parte non
vale nemmeno più la pena elencarli in una lista che non farebbe ridere nessuno,
visto che abbiamo perso il senso del disvalore in ordine a quello che promana
dalla nostra bocca o dalla nostra penna.
Quando leggo in un’ordinanza
di un giudice “ma bensì”, due congiunzioni con valore avversativo messe
inopinatamente l’una vicino all’altra, quando un avvocato verga “affianco”,
inteso come stato in luogo, allora prendo atto della tragedia che si sta
consumando. E poi, possibile che non si riesca a capire che l’espressione
“donna abusata”, al di là del fatto cui rimanda, sia un orrore, un’aberrazione?
Per rendersene conto, basta aprire il vocabolario alla voce “abusare”. Non lo
farà nessuno, perché i lemmi sono affastellati disordinatamente nella nostra
mente ormai insensibile a questo tipo di problematiche.
Ma come siamo giunti a
questo? Al fondo, c’è una insofferenza per le regole, di qualsiasi tipo siano,
morali, comportamentali, giuridiche, regole avvertite come una sovrastruttura
di cui liberarsi, un inutile orpello, buono, nella migliore delle ipotesi, per
tempi che non torneranno più. Diversa è l’evoluzione (o involuzione?) del
dialetto, per forza di cose esposto a contaminazioni di ogni tipo, a cominciare
dalla emigrazione interna e dalla osmosi con una infinità di parlate. Eppure,
mi rattrista il fatto che stia venendo meno la seconda lingua, quella che
abbiamo imparato, noi anziani, parallelamente all’italiano, quei suoni e quelle
espressioni particolari che ti fanno riconoscere, o ti facevano riconoscere,
come barese, tarantino, vastese o milanese. Amo il dialetto, lo coltivo, in
perfetta solitudine, ripassandone mentalmente vocaboli e modi di dire,
aggiungendo qualche vocabolo che scopro di tanto in tanto grazie a chi, per
età, ne sa più di me. Per noi Vastesi, meriterebbe un discorso a parte, ben più
ampio, il lombardesco, dialetto parallelo molto specifico. Ma voglio limitarmi
all’essenziale. Che consiste in questo, alla fin fine: l’appartenenza ad un
determinato gruppo linguistico ti dava il senso, vero, autentico, concreto, di
far parte di un gruppo, particolare o nazionale. La società in forma liquida ha
cassato anche l’ultimo baluardo, estremo locus resistentiae. Amen.
Giacinto Zappacosta
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