domenica 16 settembre 2012


Una notte buia e tempestosa era stata quella appena passata. Le cateratte del cielo si erano aperte, intorno alle quattro e trenta, per riversare sovrabbondante la pioggia.
Non a gocce e nemmeno a catinelle. Qualcosa di più che a “secchi”.
I lampi e i tuoni rompevano d’improvviso il rumore già di per se fragoroso dell’acqua che aveva trasformato le strade in vorticosi torrenti. Torrenti in cui i canali di gronda vomitavano violentemente il liquido troppo improvvisamente ingurgitato, assieme al materiale depositato dai piccioni o dal vento sui tetti e nelle grondaie durante i mesi di arsura estiva.

Mia moglie sistemava stracci e bacinelle dove l’acqua, dal tetto da tempo abbandonato dell’edificio adiacente, entrava copiosa in casa, mentre io, guardandola svigorito, mi trattenevo dal bestemmiare il Padre Eterno, la Madonna e tutti i Santi poiché so perfettamente che costoro sono presi da problemi molto più gravi di un temporale e riflettevo.
Possibile che non esistano i mezzi per reagire all’incuria, all’abbandono? Possibile che l’inciviltà debba rendere sua  complice chi incivile non è o non vuole esserlo?

Non riuscivo a riprendere sonno. Nella solitudine del mio studio sentivo fuori la pioggia scrosciare: ho avvicinato il volto ai vetri della finestra e ho guardato. La terra resa malinconica dall’acqua che ne fa lucide le pietre era come minacciata da plumbee nuvole che si avanzano lambendo la sommità delle case vicine.

Una persona con le gambe nude correva sul marciapiede gridando e facendo gesti col braccio destro verso persone che non ho scorto. Come un film proiettato all’incontrario ho distinto le idrovore dei Vigili del fuoco che invece di versare, aspiravano dagli scantinati l’acqua che li aveva velocemente riempiti, riversando poi questa nelle strade da tempo a loro volta allagate.

Negli anni passati si è pensato bene di assumere persone da tenere dietro comode scrivanie ma non si è pensato a personale che potesse provvedere a tenere puliti i tombini. Era sconveniente fare il calciatore, era disonorevole fare la velina, figuriamoci se si poteva “essere” pulitore di “cloache”. E ancora adesso che si ambisce ad essere calciatore o velina si pensa magari a “notti bianche” o a “notti rosa”, piuttosto che a far funzionare le “chiaviche”. Già “chiaviche” disgustosa parola. Eppure!

La pioggia dalle strade e dalle piazze scende giù dalla collina verso il mare seguendo improvvisati tragitti, tracciando ruscelli, quando non fiumi, e trascinando a valle quello che trova. Rendendo limacciosa la terra. Allagando ogni dove.

Qualcuno osserva che la terra ormai coperta dalla “macchia mediterranea” non riesce più a trattenere l’acqua.
Ma si può chiamare “macchia mediterranea” quell’ammasso di sterpi, rovi, ortiche ed erba infestante di ogni tipo che imbacucca e sconvolge i luoghi una volta coperti di oliveti, vigneti, aranceti e orti multicolori? E dove sono finiti i fertili campi tenuti da amorosi bifolchi?
Probabilmente, una volta coperti di case questi luoghi non saranno più così “desolati”.

Le acque limacciose raggiungono la Marina, dove gli eleganti villini, i curati oleandri  e le siepi di pitosforo, caratteristiche di un ameno luogo di villeggiatura, sono stati sostituiti da costruzioni sgraziate e recinti da stia, aggiungendo danno al danno.

Avrei voluto trovare motivi per continuare questo discorso con la parola “tuttavia” ma non ne ho trovati. Non sono riuscito a trovare argomenti positivi da contrapporre alle negatività che di giorno in giorno trasformano quella che era un luogo dalle “caratteristiche peculiari singolarissime”, in cui l’estetica più che l’urbanistica avrebbe dovuto essere di guida”.

La pioggia intanto stava seguitando a cadere violenta, dirotta, insistente segnando di frequenti rigagnoli la strada.

F.P D'Adamo

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