domenica 29 novembre 2015

ALLE ORIGINI DELLA CORRUZIONE NELLE REGIONI MERIDIONALI


Le scaturigini di un fenomeno difficile da estirpare. Il problema della individuazione del dies a quo

Si chiamava Luigi Viola. Nato a Galatina nel 1851, studiò presso la locale scuola degli Scolopi, laureandosi poi in Lettere a Napoli. Su segnalazione di Luigi Settembrini, insegnò nel liceo di Maddaloni. Dopo aver vinto il primo concorso bandito dal Ministero della Pubblica Istruzione per l’accesso alla Scuola Archeologica Italiana, Viola si trasferisce in Grecia, dove fa le sue prime esperienze come archeologo. Giunge infine a Taranto nel 1880, in qualità di Vice-Ispettore, con l’incarico di condurre un’esplorazione topografica sulla città vecchia. Sposa Caterina Cacace, figlia di Carlo Cacace, un personaggio emergente nella vita economica e sociale della Taranto dell’epoca. “Negli anni ottanta, il Cacace, già allora noto e facoltoso imprenditore, avendo intuito che il Borgo si sarebbe sviluppato nei pressi del costruendo Arsenale, aveva acquistato dal Comune moltissimi suoli agricoli a prezzi irrisori. Al momento opportuno, quando la richiesta di nuove abitazioni divenne fortissima, li rivendette a prezzi alti, ricavandone ingenti guadagni. Un ulteriore vantaggio veniva al Cacace dal particolare tipo di contratto che stipulava al momento della vendita: una clausola gli rivendicava la proprietà di eventuali reperti archeologici trovati nel sottosuolo” (A. Conte, I signori del piccone, Taranto 1987).
Per maggiore intelligenza, vale la pena aggiungere qualche spiegazione. Il Borgo, come si chiamava allora e come viene denominato tuttora, è l’immensa area, al di fuori della città vecchia (che ora è un’isola), dove, subito dopo l’unità d’Italia, prese piede uno sviluppo edilizio di notevoli dimensioni (in media, in un anno, venivano costruiti 5.000 appartamenti), spesso caotico, per non dire selvaggio. Unico risvolto positivo fu nel superamento dell’idea di una città ristretta all’interno delle antiche mura, con consequenziale grave sovraffollamento, la città fortezza ormai superata dalla storia. E dunque “Taranto è un immenso cantiere; ovunque si scava, si spala, si livella, si portano alla luce resti preziosi per la lettura della topografia e della storia; purtroppo questi resti, molto spesso, risultano d’intralcio ai lavori in corso e, senza esitazione, si distruggono o si lasciano sotterra o si vendono quando è possibile” (G. Peluso, Storia di Taranto, Taranto 2005). Questo per quanto attiene il Cacace. E tanto basti.
Torniamo al genero, al professor Viola, che intanto prosegue nella sua attività di archeologo. Dopo aver raccolto reperti in quantità notevole, previo accordo col Comune di Taranto, il solerte funzionario individua una idonea sede, per la conservazione degli stessi, nell’ex convento sito in corso Umberto, l’embrione dell’attuale Museo Nazionale, istituito per decreto reale del 3 aprile 1883 sotto la direzione dello stesso Viola, “che continua a lavorare con impegno anche se con discutibile deontologia professionale” (G. Peluso, op.cit.). “Personaggio emblematico, certamente utile per la comprensione della vita culturale, politica e sociale della Taranto di fine secolo, ma anche per le attività sottobanco legate al mercato antiquario” (A. Conte,op. cit..). L’attività di archeologo del Viola termina nel 1898, per dimissioni dall’incarico. A quel punto, lo sbocco naturale è negli affari e nella carriera politica, nell’uno come nell’altro caso con esiti miserevoli.
Mentre lo sviluppo edilizio della città prosegue senza sosta, nel 1883 cominciano i lavori per la creazione del canale navigabile, la via d’acqua che, ancora oggi, prospiciente il castello aragonese e scesa Vasto, mette in comunicazione il Mar Grande, cioè il mare aperto, col Mar Piccolo, vale a dire quell’estremo lembo del Golfo di Taranto che, in due seni, si estende tra i quartieri della città. Più di un anno dopo ebbero inizio i lavori per la costruzione del ponte, poi sostituito con quello attuale, il famoso ponte girevole, che collegava il centro storico al Borgo. Anche in questo caso, come ovvio, lavori di sbancamento in un’area dalla notevole stratificazione storica. “ Durante gli scavi si demolivano […] tutti gli avanzi di antiche costruzioni fra’ quali pochissimi di valore archeologico” (S. Magno, Il canale navigabile e il ponte girevole in ferro, Napoli 1898). Il racconto del Magno, troppo benevolo, lascia solo intuire le devastazioni e il saccheggio dei reperti nel bel mezzo di quella che era l’acropoli della πόλις. Da notare che le operazioni di scavo avvennero con l’assistenza del Viola, all’epoca direttore del Museo di Taranto. Il che contribuisce a far capire con che approssimazione, per non dire altro, si valutasse l’impatto sull’immenso patrimonio storico-archeologico affiorante ad ogni picconata. In questa logica, l’abbattimento dell’antica porta Lecce è un mero corollario. Sia detto solo per inciso, e a dimostrazione dell’approccio, da parte dello Stato unitario, nei confronti delle realtà locali, e del fastidio col quale la classe dirigente guardava alle testimonianze del passato, medesima sorte, anche se con minori danni, toccò alla città di Cremona, dove vennero abbattute frettolosamente “porta Milano” (così ancora oggi i Cremonesi chiamano l’attuale piazza Risorgimento) e porta Romana, che per la verità non davano fastidio a nessuno, nonché, cosa assai più grave, la chiesa di San Domenico, ubicata in quella che adesso si chiama piazza Roma. In quest’ultimo caso, si superò ogni limite: l’edificio, bisognoso di semplice restauro, fu sbrigativamente raso al suolo più per scelta ideologica, come emerge dal breve ma intenso dibattito a margine della decisione, che per una qualsivoglia plausibile motivazione. Le ossa dei morti sepolti nella chiesa, tra i quali i resti di Antonio Stradivari, furono disperse assieme al materiale edile. E non fu l’unico atto di delirio anticlericale consumato a Cremona. 
Ma riprendiamo il filo del discorso sulla città ionica. Nel 1884, cioè lo stesso anno in cui si costruisce il già citato ponte, comincia la costruzione dell’Arsenale. “L’Arsenale era cascato nella necropoli tarantina, ed ogni giorno nuovi sepolcri si aprivano al sole. A volte erano piccole tombe di bimbi, o rustiche di servi: il che valeva per indizio che più oltre stavano certo quelle dei maggiori ed erano lunghe e spaziose, coperte da due lastre di carparo ben squadrate” (G.C. Viola, Pater, Taranto 1986). “Chi dirà mai quali e quanti tesori del glorioso passato sono andati perduti per ignoranza, incuria, ma soprattutto per lucro?” (G. Peluso, op. cit.). “Molto diffuso era il fenomeno della vendita di contrabbando di materiale archeologico, che solitamente si svolgeva nei negozi di antiquariato, presenti un po’ dappertutto nella città vecchia. Il più fornito era quello di Vito Panzera, ubicato nella centralissima Strada Maggiore” (A. Conte, op. cit.). “In questo locale si effettuava la compravendita di oggetti, talora veramente preziosi, per i quali il Ministero era nella impossibilità economica di far valere il suo diritto di prelazione” (G. Peluso, op. cit.).
Affarismo rampante, insensibilità nei riguardi delle vestigia storiche e della propria terra. Siamo all’indomani dell’unità d’Italia, quando la nuova classe dirigente, liberale e massonica, anticlericale, coniuga il patriottismo, quello imposto dalle baionette e dagli stupri dei bersaglieri, nonché da Garibaldi e dai suoi “pendagli da forca”, come lo stesso generale definì i Mille, al dispiegarsi, senza limiti e ritegni, dell’interesse personale e di casta. Nasce appunto, come si evince dagli epifenomeni evidenziati, la figura del borghese affarista, quello che si muove con passo tutt’altro che felpato, ma che può comunque fare affidamento sulla fitta rete di amici piazzati al posto giusto per ogni dove. Per ogni malefatta c’è un accomodamento, e in fin dei conti c’è lo Stato che chiude un occhio. Quando non li chiude tutti e due. L’humus ideale per il proliferare della speculazione edilizia, accompagnata dal sacco del territorio e dal massacro della eredità storica. D’altra parte, al di là delle brume della storiografia ufficiale, la figura del Garibaldi, la cui spedizione nel Sud si assume essere lo spartiacque tra un presunto ritardo meridionale (negato però dall’evidenza dei dati macroeconomici) e l’inizio di un riscatto, almeno in potenza, segna piuttosto quel connubio tra la politica, tra la gestione della cosa pubblica e l’arricchimento personale. Trafficante di schiavi e ladro di bestiame in sud America, Garibaldi attinse largamente, una volta entrato in Napoli, alle ricchezze dell’ormai conquistato Regno delle Due Sicilie, per riversarle a favore dei figli, i quali le utilizzarono, dopo il 20 settembre 1870, dando l’avvio alla speculazione edilizia nella città di Roma. E il cerchio si chiude. Il malaffare, in forme mai conosciute prima, unifica dunque la Penisola completando l’opera dei “fratelli liberatori”. I quali, a Napoli, avviarono, specie in occasione del plebiscito, quel rapporto organico e perverso con la camorra di Tore ‘e Crescenzo. Montanelli aveva ragione: l’Italia è figlia del risorgimento. 

Giacinto Zappacosta

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