Da sempre apprezzo * per il suo sagace argomentare. È uno che prima di intingere la penna
nel calamaio (l’inchiostro, spesso, è allungato col veleno), studia. E poi sa
scrivere, conosce l’italico idioma, cosa rara di questi tempi. A proposito, i
sacerdoti provenienti da quello che una volta chiamavamo il terzo mondo hanno
il compito storico di ri-evangelizzarci, ma anche quello di ri-alfabetizzarci,
visto che sanno di latino e, di conseguenza, hanno dimestichezza e familiarità
con la lingua di Dante e di Machiavelli, il quale ultimo (** non lo
sa) ha creato, senza cercarla, la nostra prosa: lo dice Francesco De Sanctis,
non lo dico io. Proprio ieri ho incontrato in piazza *** un giovane
indiano che sta studiando in Italia per diventare sacerdote: me lo ha
presentato l’amico Lucio ****. Ragionavo, o almeno provavo a ragionare sul
fatto che un indiano (dell’Asia), sotto il profilo etnico, è della nostra
stessa razza, la razza ariana o (se sembra meno sconvolgente il termine)
indoeuropea. Vado a memoria o, come dico sempre, quella che mi rimane, per dire
a me stesso come in effetti nel V secolo avanti Cristo un bel gruppo di
Indoeuropei, lasciando gli altopiani a
cavallo tra Asia ed Europa, anziché incamminarsi verso ovest, come fecero i
Latino-Falisci (1.200 a.C. circa), gli Osci (900 a.C. circa) e tanti altri, si
diresse spedito verso est, verso l’attuale India e l’attuale Pakistan, dove si
fuse con la popolazione locale, o meglio la assorbì. Inattaccabile, dunque,
questo seminarista, anche dal più incallito razzista. Per me, e lo dico
seriamente, è il benvenuto per i motivi suesposti. Così come sono benvenute le
suore indiane che alloggiano in via Santa Maria, sempre sorridenti e sempre
disponibili al dialogo. Le quali suore, e veniamo qui ad interessante fenomeno
antropologico-culturale, intendono il sacrestano di Santa Maria Maggiore quando
questi parla in dialetto vastese. Che la nostra parlata stia diventando una
koινή, una lingua franca, un ponte lanciato fra le diverse culture? Non c’è che
rallegrarsi: la lenga non morirà, sopravviverà. Sì, ma che c’entra tutto questo
con *? Niente. Il problema è solo mio, nel senso che da quando
sto cercando di leggere I Demoni (tre anni) sono impantanato nel primo
capitolo, che è un’introduzione (così la definisce l’autore). Solo che è una
cosa talmente lunga da sembrarmi una presa per i fondelli, una cosa che non
c’entra nulla con la trama. In ogni caso, col dovuto rispetto, due palle così. Epperò,
il vizio mi ha contagiato. Mi metto a scrivere e una servetta (Pirandello) mi
mena per vie parallele. Comunque sia, dicevo, * sa il fatto suo.
Grandioso quel suo “pezzo” dove si parla del governatore di Vasto, il d’Avalos
del terzo millennio di nostra Salute, potremmo aggiungere. L’ho visto ieri
mattina, Luciano d’Avalos, poco prima di incontrare il seminarista indiano,
mentre andava al bar. Prima il mio amico Luciano era molto più cordiale con me,
e la cosa, lo confesso, un po’ mi dispiace. Però una cosa * deve ammettere: Luciano Antonio è persona che mantiene la parola data. Avrà i
suoi difetti, come li abbiamo tutti, ma rispetta gli impegni, a costo di farsi
ammazzare. Una volta mi disse (eravamo in campagna elettorale, l’ultima
campagna): “Tu sei una persona seria”. Erano le 8 del mattino, ma sono sicuro
che dodici ore dopo avrebbe detto la stessa frase. Che dire? Trovare qualcuno
che ti apprezza fa sempre piacere, inutile negarlo. Aggiungo che mi sono
commosso quando l’ho visto cantare l’inno di Mameli in occasione del primo
consiglio comunale. Dico “visto” perché non mi giungeva la voce, la sua voce,
ma l’effetto nel mio animo è stato dirompente. In quella occasione ebbe a
definirsi “un moderato”: non ho capito se si riferisse alle abitudini
alimentari, che so essere sobrie, tali da rivaleggiare con quelle di Icco, il
campione olimpico tarantino, noto, all’epoca (qualche secolo prima di Cristo),
per i suoi pranzi senza eccessi. Ci mancherà, quando, per forza di cose, non sarà più il nostro sindaco. Pazienza.
Giacinto Zappacosta
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