L’allitterazione
‘A egregie cose il forte animo accendono
l’urne de’ forti’, o Pindemonte’. Così Ugo Foscolo, uno dei nostri grandi, le
cui poesie eravamo obbligati ad imparare a memoria. Bei tempi. Che comunque si
prolungano nel presente, in quel godimento estetico che mi accompagna ancora
adesso, quando, di tanto in tanto, ripasso a mente quei versi. E li ricordo
ancora. Parliamo di allitterazione, dunque, termine che, derivando dal latino,
sta ad indicare un allineamento delle lettere. Mi spiego, facendo riferimento
al verso foscoliano che abbiamo come esempio, nel quale, a creare un’atmosfera,
un suono particolare, c’è la ripetizione dell’aggettivo ‘forte’. Questa figura
retorica, difatti, consiste nella reiterazione di
un suono o di una parola, molto spesso in poesia, ma anche nella lingua
comune, in espressioni del tipo ‘tosto o
tardi’, ‘bello e buono’, e così via. Normalmente, a far intendere la struttura
dell’allitterazione, si fa riferimento al verso di Ennio, ‘O Tite tute Tati
tibi tanta tyranne tulisti’, che, ad essere franchi, col dovuto rispetto,
sembra essere nulla più che uno scioglilingua ben riuscito. Lasciando da parte
i tecnicismi che distinguono l’allitterazione assonantica da quella
consonantica, e che comunque il lettore può approfondire per proprio conto,
rimane solo da dire che tale figura, per il suo effetto mnemonico, è utilizzata
spesso nell’ambito pubblicitario. La prossima volta, a Dio piacendo,
parleremo dell’eufemismo.
Giacinto Zappacosta
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