Pensare in greco,
parlare in italiano ed agire in latino. È un ideale che inseguo fin da giovane,
con tanta fatica e tanta passione. Nella mia personalissima cosmologia, la
Grecia attiene alla profondità del pensiero, quella capacità, unica, di
penetrare la natura delle cose, mentre è propria della romanità, depurata delle
americanate cinematografiche, quella attitudine, elevata al massimo grado, di
volgere l’animo in medias res, di guardare al concreto, attingendo da quel
canone del ‘parcere subiectis et debellare superbos’. Nel bel mezzo ci siamo
noi, noi che parliamo questa stupenda lingua, noi Italiani, o meglio quei pochi
che assistono con dolore alla demolizione sistematica dell’idioma. Tutto il
resto, per me, al di fuori di questa triade, è periferico. Ora, può capitare,
per influenza osmotica, che un’espressione greca, nel dialogo tra amici, erompa
in luogo dell’italiano. Il guaio è che a me è capitato nell’approccio con una
signora. L’espressione in greco, in greco antico, che ora vado a rendere in
caratteri latini, suona così: ‘stocàzomai scopù’. Lo dissi volendo significare,
in stretta aderenza alla traduzione, ‘sono concentrato sullo scopo’, niente di
particolare. Non ricordo cosa stessi facendo: forse stavo leggendo, forse
inseguivo i miei pensieri, insomma qualcosa stavo pur facendo. Volevo scusarmi
per la mia apparente scarsa attenzione. ‘Stocàzomai scopù’. Mai espressione
risultò più infelice. La signora si girò sui tacchi e andò via, per sempre. Non
è che avesse tutti i torti, atteso che l’assonanza, specie se accostata alla
parlata sarda, sembra rimandare ad un’allusione salace fin troppo evidente. Non
me lo perdonerò mai.
Giacinto
Zappacosta
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