mercoledì 19 ottobre 2016

IL LINGUAGGIO. IN PARTICOLARE LA NOSTRA LINGUA



Introduzione. La metonimia
Il linguaggio è la forma d’arte più alta. Suoni emessi con la voce o segni vergati su un foglio, se opportunamente utilizzati, rimandano ad una pluralità di significati, di sfumature, di timbri. In particolare, la nostra lingua, la lingua italiana, che andrebbe apprezzata e studiata, è in grado di rendere e sostenere contenuti filosofici, impegnativi, analisi scientifiche e tecniche, ma anche immagini poetiche di alto profilo. In quest’ultimo caso, la mente corre a Dante, il primo, non solo in ordine cronologico, e a tutti quei nomi che arricchiscono la nostra letteratura. Un idioma che, secondo me, è il più bello del mondo, mentre tra le lingue morte (che brutta espressione) rivaleggiano il greco e il latino. Non tutte le lingue, per la verità, facciamoci caso, si prestano, ad esempio, ad esporre le teorie platoniche o a descrivere immagini liriche. La lingua italiana può tutto questo. Arricchiscono il nostro parlare le cosiddette figure retoriche, un abbellimento ulteriore, ‘arte aliqua novata forma dicendi’ secondo la definizione di Quintiliano, riferimenti linguistici che danno forza, bellezza, profondità, vivacità al nostro dire. Le usiamo tutti, senza accorgercene. ‘Tizio ha bevuto due bicchieri, ho letto Manzoni, la gamba del tavolo, accarezzo l’idea’ sono frasi rese con figure retoriche. Per un approfondimento di questi argomenti, ognuno può ovviamente attingere ad una vastità considerevole di opere. Per parte mia, consiglierei ‘Caramello-Sarasso, Introduzione allo studio delle lettere, ed. Paravia 1957’ e ‘John Lyons, Introduzione alla linguistica teorica, Laterza 1981’. Quest’ultimo libro è un po’ ostico, ma molto affascinante. Cominciamo dalla metonimia.L’origine greca del nome, sta a significare ‘scambio, trasferimento del nome’. Questa figura, molto usata, consiste nel ricorrere all’astratto in luogo del concreto (sottrarsi alla sorveglianza), al contenente per il contenuto (bevo un bicchiere), alla materia per l’oggetto (sfoderare il ferro), all’autore per l’opera (conosce Dante a memoria), alla causa per l’effetto (è una brillante penna, è una buona forchetta), al concreto per l’astratto (seguire il proprio cuore). E così via. La metonimia, dunque, nel linguaggio di tutti i giorni, è la figura cui facciamo ricorso più spesso.     

La sineddoche
Strettamente imparentata con la metonimia è la sineddoche. Anche in questo caso, l‘etimologia del nome, che i Latini rendevano col termine ‘intellectio’, rimanda al greco antico. Il primo impatto con questa figura retorica era immancabile in prima media, quando il docente, leggendo l’Iliade, si soffermava su quella espressione di Omero, così ricca di fascino, ‘le veloci prore’, che sta ad indicare le navi dei Greci minacciosamente posizionate dinanzi a Troia. La sineddoche, dunque, indica, come in questo caso, il tutto, la nave appunto, con la parte, cioè la prua. Lo stesso vale quando con ‘tetto’ vogliamo indicare ‘casa’, e così via. Attenzione: se per indicare una nave, o una barca, dico ‘legno’, siamo nell’ambito della metonimia, come già spiegato in precedenza. La sineddoche ricorre anche quando si fa riferimento al rapporto genere-specie, ad esempio dicendo ‘il felino’ per indicare il gatto, o ancora quando si allude alla relazione singolare-plurale, come nell’espressione ‘l’italiano è mal visto in Germania’. È evidente come qui si faccia riferimento non al singolo italiano, ma ad una intera comunità. E gli esempi si possono moltiplicare.

Il climax
L’esempio, indimenticabile per la mia generazione, è nelle affascinanti notti dal profumo messicano, quando l’Italia si batté con valore ai campionati del mondo di calcio. Il bianco e nero del televisore, eravamo nel 1970, esaltava le gesta dei nostri atleti, campioni d’Europa in carica e in procinto di conquistare uno splendido secondo posto dietro al Brasile di Pelè, il più grande calciatore di tutti i tempi. La voce di Nando Martellini, nelle sue telecronache sempre puntuali e precise, giungeva forte e chiara: ‘Riva…Riva…Riva…il tiro…Riva! Tre a due per l’Italia!’. La semifinale contro la Germania, per la precisione, all’epoca, Repubblica Federale Tedesca, quel 17 giugno, fu memorabile. Più del marmo commemorativo nello stadio Azteca di Città del Messico, vale la nostra memoria collettiva. L’ampia premessa vuole ora focalizzarsi sul crescendo di toni utilizzato da Martellini per descrivere la fruttuosa azione di Rombo di Tuono, il Gigi nazionale. Si tratta, in retorica, di un climax. Il nome, come sempre, rimanda al greco (in italiano è preferibile l’uso al maschile) e significa ‘scala’, quindi una gradazione di parole, di immagini sempre più forti, via via più coinvolgenti. Normalmente il climax è ascendente, ma sussiste anche la forma discendente, quando i toni del discorso, viceversa, si fanno man mano più pacati. Altro esempio di questa figura, in questo caso nell’accezione ascendente, è in Dante: ‘quivi sospiri, pianti ed alti guai’. 

Il chiasmo

Come sempre, e questo ha una valenza sulla quale bisognerebbe parlare a lungo, la terminologia è di diretta derivazione ellenica. Chiasmo vuol dire incrocio, duplice accostamento di due termini in maniera tale che gli stessi siano invertiti nella seconda frase rispetto all’ordine in cui appaiono nella prima. Un esempio vale a spiegare in tutta semplicità. ‘La Ninfa si bagna nel mare, il mare accarezza la Ninfa’. La costruzione, banale e priva di colore, serve comunque ad intendere come vi sia una coppia di termini, Ninfa e mare, e come i due termini siano disposti in sequenza inversa nelle due proposizioni, cioè dapprima la sequenza ‘Ninfa-mare’ e poi l’altra ‘mare-Ninfa’. Molto più riuscito, senza possibilità di paragoni, il chiasmo di Giacomo Leopardi, ‘io solo combatterò, procomberò sol io’, che dà vigore, forza espressiva e spessore ad uno dei suoi versi più famosi. Almeno, famoso per chi lo ha studiato. Gli esempi, come per ogni figura retorica, si possono elencare all’infinito, fino a comprendere un periodare utile solo a memorizzare il concetto: ‘Antonio ama Cleopatra, Cleopatra ama Antonio’. E tanto basti. L’antimetaboleUna figura particolare di chiasmo, che abbiamo analizzato la scorsa volta, è l’antimetabole, e non vale la pena soffermarsi sul punto se questa sia una figura a sé stante o viceversa ricompresa nella prima. La chiara origine greca del nome, che i Latini rendevano col termine ‘commutatio’, indica una disposizione a chiasmo nella quale però si ha un rovesciamento del significato delle parole. Esempio: ‘non si vive per mangiare, si mangia per vivere’. Classico l’altro esempio tratto da Quintiliano (tra parentesi, impossibile dargli torto): qui stultis videri eruditi volunt, stulti eruditis videntur’. Tradotto molto liberamente, suonerebbe come ‘a lavare la testa all’asino si sprecano il tempo, il sapone, ma soprattutto la reputazione’. Cacchio se è vero. Tornando a noi, l’antimetabole è utilizzata, al giorno d’oggi, nei messaggi pubblicitari, nei titoli degli articoli di giornale e in tutte quelle situazioni di contesto nelle quali si vuole far leva, mediante un gioco di parole, sull’immaginario collettivo. Come nella frase, famosa, coniata da un rivoluzionario dalle scarse fortune: ‘l’arma della critica non può certamente sostituire la critica delle armi’. Sappiamo come è andata a finire.

La litote
I Latini la chiamavano ‘deminutio’, cioè ‘diminuzione’ o ‘attenuazione’. L’etimologia, l’origine del termine, rimanda, come ormai abbiamo imparato, alla lingua greca antica. La litote è una figura retorica, usata anche nel linguaggio parlato, molto semplice nella sua definizione, che consiste, attraverso la negazione del contrario, in una attenuazione del concetto. Gli effetti, le sfumature sono molteplici, dal tono ironico, all’enfatizzazione, alla dissimulazione. Esempio: se, in un determinato contesto, voglio significare, senza essere troppo severo, lo scarso ingegno di una persona, dirò, negando appunto il contrario, che ‘Tizio non è una cima, Tizio non è particolarmente intelligente’ e così via. È chiaro che, mutando il contesto, queste stesse espressioni assumono una valenza ironica, come nel caso si voglia sbeffeggiare la bruttezza di qualcuno asserendo trattarsi di persona ‘non bella’. Oppure, infine, la litote vuole dare risalto ad una proposizione, ad un concetto. Vediamo: ‘Tizio si è impegnato non poco, ha affrontato prove non facili’. Altri esempi di litote ricorrono in espressioni frequenti, quali ‘non mi sfugge, nessuno ignora, non voglio sottovalutare’. La finezza stilistica, per concludere in bellezza, è nella doppia litote dello pseudo-Cicerone: ‘il padre ha lasciato un patrimonio, non voglio dire troppo, non modestissimo’. La doppia negazione rende una gradazione di immagini che lascio all’apprezzamento del lettore. 

L’ipallage
Questa figura retorica, come ci dice l’origine greca del nome, indica uno scambio, un passaggio. Andiamo subito ad un esempio. ‘Ma io deluse a voi le palme tendo’. Il verso foscoliano, tratto da ‘In morte del fratello Giovanni’, indimenticabile sonetto tuttora presente in chi lo ha mandato a memoria, esprime l’immagine dell’esule che tristemente anela agli affetti familiari. È appena il caso di sottolineare come la delusione sia insita nell’animo del poeta, non già nelle palme, cioè nelle mani, idealmente tese ad abbracciare i propri cari. Nel che è evidente il passaggio, appunto, che dà colore e intensità al poetare, di un sentimento riferito a quel gesto anziché, come è nella realtà, alla psiche dell’individuo. Quindi l’ipallage è una diversione nell’uso dell’aggettivo qualificativo, concordato con un elemento della proposizione diverso rispetto a quello cui si riferisce da un punto di vista strettamente logico. Gli studiosi, al riguardo, parlano di concordanza con il determinato anziché col determinante o viceversa. Ma non spingiamoci oltre.  Piuttosto, ad un lettore attento non sarà sfuggito un altro particolare, cioè che nel verso in esame l’uso del sostantivo ‘palme’, a sua volta, rientri nella sineddoche, figura analizzata in precedenza. Altro esempio di ipallage è nella poesia ‘Pianto antico’ di Giosuè Carducci, nella quale ‘la pargoletta mano’ dice molto all’animo di chi legge. O ancora, nell’Eneide Virgilio ci regala la felice espressionealtae moenia Romae’.


L’enallage
In parte sovrapponibile all’ipallage, che abbiamo analizzato la scorsa volta, l’enallage (dal greco ἐναλλάσσω, scambio) consiste in una conversione delle funzioni tra le parole. Lo scambio riguarda la classe grammaticale, il verbo e il numero. L’uso avverbiale dell’aggettivo, affermatosi dapprima in poesia ed ora ampiamente diffuso in prosa, è il classico esempio di scambio di classe grammaticale. Così, invece di dire ‘ho lavorato duramente’, troveremo la frase ‘ho lavorato duro’, e così via. Molto più godibile l’enallage in Dante, Inferno, nel verso ‘e cominciommi a dir soave e piana’. Quanto allo scambio nell’ambito delle voci verbali, troviamo l’uso del presente in luogo del passato, del presente in luogo del futuro, dell’indicativo in luogo del condizionale. Di nuovo Dante, Inferno: ‘facevano un tumulto, il qual s’aggira’. Nel che è evidente il passaggio dal passato al presente, mentre nella proposizione ‘andrò a Roma, già vedo il Colosseo’ è l’uso del presente per il futuro. Infine nel Purgatorio l’espressione ‘se non si temperasse, tanto splende’ ci dice dell’uso del modo indicativo in luogo del condizionale. ‘Usciva insieme parole e sangue’, sempre tratto da Dante, Inferno, ci illumina sulla variazione del numero, trovandoci di fronte ad una voce verbale al singolare, quando, a stretto rigore, la lingua italiana vorrebbe il plurale. Merita in conclusione sottolineare che se il passaggio è nell’ambito dell’aggettivo qualificativo, come spiegato nella lezione precedente, siamo nell’ambito dell’ipallage, non dell’enallage. Ricordiamo, a proposito, il famoso verso di Foscolo ‘ma io deluse a voi le palme tendo’, tipico, splendido esempio di ipallage.

L’allitterazione
‘A egregie cose il forte animo accendono l’urne de’ forti’, o Pindemonte’. Così Ugo Foscolo, uno dei nostri grandi, le cui poesie eravamo obbligati ad imparare a memoria. Bei tempi. Che comunque si prolungano nel presente, in quel godimento estetico che mi accompagna ancora adesso, quando, di tanto in tanto, ripasso a mente quei versi. E li ricordo ancora. Parliamo di allitterazione, dunque, termine che, derivando dal latino, sta ad indicare un allineamento delle lettere. Mi spiego, facendo riferimento al verso foscoliano che abbiamo come esempio, nel quale, a creare un’atmosfera, un suono particolare, c’è la ripetizione dell’aggettivo ‘forte’. Questa figura retorica, difatti, consiste nella reiterazione di un suono o di una parola, molto spesso in poesia, ma anche nella lingua comune,  in espressioni del tipo ‘tosto o tardi’, ‘bello e buono’, e così via. Normalmente, a far intendere la struttura dell’allitterazione, si fa riferimento al verso di Ennio, ‘O Tite tute Tati tibi tanta tyranne tulisti’, che, ad essere franchi, col dovuto rispetto, sembra essere nulla più che uno scioglilingua ben riuscito. Lasciando da parte i tecnicismi che distinguono l’allitterazione assonantica da quella consonantica, e che comunque il lettore può approfondire per proprio conto, rimane solo da dire che tale figura, per il suo effetto mnemonico, è utilizzata spesso nell’ambito pubblicitario.
                                                                  
L’eufemismo
È un figura retorica molto semplice e di facile comprensione. L’etimologia, che come sempre rimanda alla lingua di Platone e Aristotile, sta a significare, traducendo un po’ liberamente, un bel parlare, o un parlare a fin di bene. Per esempio, se voglio alleggerire il discorso, sottacendo riferimenti troppo forti o sconvenienti, sostituisco l’espressione propria con un’altra analoga ma di significato attenuato. L’uso dell’eufemismo si riscontra spesso nella lingua parlata comune, come nel dire ‘non-vedente’ in luogo di ‘cieco’, ‘non-udente’ invece di ‘sordo’, e così via. Classico è l’espediente di non nominare la morte parlando di ‘passaggio a miglior vita’. Più elegante, senz’altro, una frase del Manzoni, un maestro della lingua italiana: ‘gli legano i polsi con certi ordigni, per quell’ipocrita figura d’eufemismo, chiamati manichini’. Altro esempio, che però sconfina in un’altra figura, l’antonomasia, che analizzeremo la prossima volta, è nell’ indicare come ‘l’avversario’ quello che in realtà è il Diavolo. Stesso discorso per l’imprecazione ‘diamine’, che fa appunto riferimento all’angelo decaduto.  È chiaro che posso ricorrere all’eufemismo anche in chiave ironica, come in un’espressione del tipo ‘ho visto di meglio, ho ascoltato di meglio’. E così all’infinito.

L’antonomasia
‘The Voice’. Non so se gli americani, e comunque coloro che si esprimono in inglese, abbiano la consapevolezza di utilizzare la figura retorica dell’antonomasia, né so se tale figura esista, al pari delle altre, in quella lingua. ‘The Voice’, ‘la Voce’, che tutti sappiamo essere Frank Sinatra, è un’espressione che  rimanda ad un significato diverso da quello proprio. Come ci dice l’etimologia del termine (come al solito, ci soccorre il greco), antonomasia vuol dire, semplicemente, ‘al posto del nome’. Se io dico, rifacendomi a Gianni Brera, ‘Rombo di Tuono’, sappiamo, almeno noi anziani, quelli che hanno vissuto l’epopea di Massico 70, che mi riferisco a Gigi Riva utilizzando una figura discorsiva diversa dal nome del personaggio. I Latini, che pure avevano sviluppato uno stile di prim’ordine, la chiamavano ‘pronominatio’. Viene definita come sineddoche ad individuum, nel senso che seleziona un aspetto tipico associandolo ad un individuo. Gli esempi si possono moltiplicare: il Pelide sta ad indicare Achille, il padre degli dei, invece, è Zeus, o Giove che dire si voglia, la Vergine, dal canto suo, è la Madre di Gesù.

La metafora e la catacresi
Partiamo da qualche esempio. Se io dico ‘il mare ondeggia’ è un conto, ma se trasferisco quel movimento delle onde alle bionde spighe, in un discorrere che potrebbe suonare ‘l’ondeggiare del grano’, allora siamo in presenza della metafora, un’altra figura retorica che, assieme alle altre, rende godibile e bella la nostra lingua. Metafora significa, come nell’origine greca del termine, ‘trasferimento’ e consiste in un processo analogico, in base al quale un vocabolo, o una perifrasi, è usato per rendere un concetto diverso da quello che normalmente esprime. Altri esempi: ‘il ruggito del motore, una grandinata di pugni, il mugghiante mare’. Si tratta di immagini che riferiscono, ad esempio ai pugni accostati ad un fenomeno atmosferico, caratteristiche ed azioni che in realtà non sono proprie di un determinato vocabolo. Molto simile alla metafora, al punto che le due figure possono confondersi, è la catacresi (il greco ci dice che siamo in presenza di un ‘abuso’), vale a dire la spendita impropria di un vocabolo. È così quando chiamiamo ‘collo’ una parte della bottiglia, ‘braccio’ il sostegno della lampada, ‘gamba’ la base del tavolo, e così di seguito.

L’ossimoro
‘Le convergenze parallele’. La definizione, coniata da Aldo Moro, plastico simbolo del degrado della politica, a ben vedere è un ossimoro, non proprio elegante, ma pur sempre un ossimoro. Vediamo qualche altro esempio, un po’ più calzante: ‘lucida follia, insensato senso, pace armata, calma densa di minacce’. L’ossimoro, parola che, derivando dal greco (poteva essere altrimenti?) significa ‘acuto folle’. Nell’accostamento dei due aggettivi qualificativi, inconciliabili, o apparentemente inconciliabili, è l’essenza di questa figura retorica, che consiste in una unione sintattica di due temi contraddittori in modo che si riferisca a una sola entità. Si tratta dunque di un’antitesi, resa dai Latini con i termini ‘contrapositum’ e ‘contentio’. Si tratta di idee, di significanti inconciliabili tenuti insieme a produrre un’immagine inaspettata, talora con effetti comici, o ironici, in ogni caso con esiti di sicura riuscita. Ovviamente, non è da tutti, ma solo per coloro che sanno usare la penna, oltre che la testa.


La diafora o antanaclasi
‘La mattina seguente Don Rodrigo si svegliò Don Rodrigo’. I Promessi Sposi, capolavoro impagabile, luogo di incontro con la cultura, col bel discorrere, ci offrono, nel brano riportato, un luminoso esempio di diafora, figura retorica che consiste nel ripetere una espressione attribuendole un significato diverso. Significato che può avere valore rafforzativo, ad indicare una maggiore pregnanza (‘è un pessimo uomo, ma è pur sempre un uomo’), oppure negativo, come nel passo manzoniano testé ricordato. Questa figura, chiamata dai Latini ‘distinctio’, veniva anticamente distinta dalla antanaclasi (ce ne parla Quintiliano), che è una diafora dialogica, laddove uno dei personaggi riprende, variandone però il significato, le parole proferite da un altro personaggio. In ogni caso, diafora e antanaclasi sono oggi due termini sinonimi. A meglio intenderne il significato, ci soccorre il greco: diafora significa ‘portare attraverso’, mentre antanaclasi sta ad indicare ‘ripercussione’. Altri esempi, partendo da una tautologia: ‘la guerra è guerra’ oppure ‘gli affari sono affari’. Ancora: ‘la ragione ti dice che non hai ragione’, e così via. 

La tautologia
In greco, la lingua di Platone e Aristotele, sta a significare ‘lo stesso discorso, le stesse parole’. La tautologia è una particolare figura retorica che consiste nel ripetere il contenuto in una frase, con lo scopo di aumentarne l’enfasi. Il più delle volte indica una ovvietà. Qualche esempio di tautologia: i pavidi assumono comportamenti pavidi, i triangoli hanno tre lati, il colore nero è scuro. Si tratta quindi di una affermazione apodittica, vera senza necessità di dimostrazione. Un significativo esempio di questa figura è il toponimo ‘Mongibello’, composto da ‘monte’ e l’arabo ‘gebel’, che sta anch’esso per ‘monte’. Altri esempi: o piove o non piove, il pentagramma è composto da cinque righe. In buona sostanza, l’enfasi insita nell’affermazione tautologica non aggiunge alcuna informazione, limitandosi a ribadire quanto già espresso di per sé dal soggetto o da un complemento.

Lo zeugma
È una figura retorica particolare. Lo zeugma (in greco ‘zeugma’, vocabolo omofono rispetto alla lingua italiana, come si può vedere, significa ‘aggiogamento, unione’) consiste nel riferire più soggetti o complementi ad un solo elemento che, a stretto rigore, dovrebbe essere ripetuto per ciascuno di essi. Come al solito, qualche esempio ci toglierà d’impaccio. Se io dico ‘Antonio mangia il pane, io la pasta’, notiamo che ‘mangia’, voce del verbo ‘mangiare’, sottintesa rispetto al soggetto ‘io’, è in astratto sbagliata perché, come ovvio, dovremmo trovare la voce ‘mangio’. Ancora: Tizio andrà al mare, io in montagna, frase nella quale, al pari della prima, si dovrebbe aggiungere la voce del verbo concordata col soggetto ‘io’. Si tratta dunque di una incoerenza semantica, specie del più generale fenomeno dell’ellissi, che dà colore al discorso, come nel classico esempio tratto da Dante, in quell’indimenticabile ‘parlare e lacrimar vedrai insieme’ in cui la prima persona del verbo si adatta al primo soggetto ma non al secondo. E così via.Desidero ringraziare un amico, la stessa persona che mi ha fatto apprezzare il De vulgari eloquentia di Dante, per avermi suggerito questa interessante figura retorica.   

Considerazioni finali
Un lungo e spero interessante ci ha condotti attraverso le bellezze della nostra lingua, ad apprezzare, in particolare, le varie figure retoriche che la arricchiscono di tante sfumature. Dicevo come il linguaggio sia la più alta forma d’arte. Posso soffermarmi, adesso, a considerare come il nostro idioma sia l’espressione più alta di linguaggio, capace di sostenere e rendere poesie di elevata fattura (è sufficiente nominare Dante, Petrarca, Leopardi, Foscolo e Manzoni?), romanzi, opere letterarie in genere, ma anche scritti di carattere scientifico, filosofico e quanto altro ancora. Spero di aver suscitato, nel corso del tempo, un interesse nel pubblico, con rigorosa e preventiva esclusione delle capre, irrimediabilmente elette quali demolitrici della lingua, in particolare, e della cultura, in generale. Quelle stesse capre i cui apoftegmi, propalati attraverso face book, vera disgrazia del nostro secolo (aveva ragione, forse solo in questo, Umberto Eco), risuonano in improbabili frasi: ‘l’hai complimentata, la donna abusata’ ed altre imbecillità di pari o superiore spessore. Per non parlare degli errori di ortografia, a cominciare da ‘e né’. Prima che muoia la lingua, epifenomeno di un decadimento più generale, soltanto altre due considerazioni. I Romani, Quintiliano sopra tutti, avevano elaborato una solida retorica, le cui figure erano quindi indicate con nomi latini. Il punto, sul quale varrebbe la pena spendere un discorso a parte, molto articolato, è che quelle figure retoriche, con la sola eccezione dell’allitterazione, vengono indicate da noi Italiani, diretti eredi della cultura latina, con termini di chiara origine greca, prima fra tutti lo zeugma, vocabolo del tutto omofono rispetto alla lingua ellenica antica. Evidentemente, ma è solo un accenno rispetto ad una più ampia problematica, ricca di spunti, la valenza della cultura greca si estende fino a noi, uomini e donne di quest’epoca residenti in Italia. L’altra considerazione è di ordine metodologico. Ho analizzato, su queste colonne, diciotto figure retoriche, tralasciando quelle che, pur se elaborate da sicura dottrina e consolidatesi nel tempo, mi paiono essere inutili ripetizioni, doppioni di forme espressive dalle quali differiscono solo per la denominazione. Ad esempio, l’isocolo, di cui non mi sono occupato, è perfettamente riconducibile, a mio avviso, all’allitterazione, come d’altra parte l’anadiplosi, sulla quale ultima parimenti non mi sono soffermato. Isocolo, anadiplosi ed allitterazione che di conseguenza potremmo ricondurre ad unità. In buona sostanza, anche in retorica, come in diritto e in tutte le scienze, vale la regola del rasoio di Occam, in base alla quale ‘entia non sunt multiplicanda praeter necessitatem’, gli enti, le categorie non vanno moltiplicati al di là della necessità. Il lettore può comunque farsi un’idea personale studiando per proprio conto le diverse forme oratorie. Non mi rimane che ringraziarvi. Buona lingua italiana a tutti. 

Giacinto Zappacosta



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