venerdì 3 febbraio 2017

TARANTO, LA SUA PARLATA, LIVIO ANDRONICO, L'ASTUZIA DELLA RAGIONE


“Tu canis ombrosi
subter pineta Galaesi”.
“Tu, (Virgilio) canti per
le pinete del Galeso ombroso”,
Sesto Properzio, (47 ca. – 15 a.C.),
Elegie, Libro, II, 34, 68.


Il dialetto è un misto di greco e di latino, per certi versi uguale a quello barese o foggiano, ma con caratteristiche sue proprie. Te ne accorgi soprattutto attraversando i vicoletti e le piazzette della città vecchia, un’isola che conta quaranta chiese e lo stupendo duomo, dove, all’interno di una cappella laterale, trionfo del barocco, è conservato il corpo di San Cataldo, protettore della città. Inutile dire che ogni famiglia tarantina ha almeno un componente che porta quel nome, molto spesso declinato in “Aldo”, a significare la devozione, che si tramanda di generazione in generazione, nei riguardi del personaggio venuto da lontano, per la precisione dall’Irlanda. Discepolo di San Patrizio, protettore di quella nazione, Cataldo, di ritorno dalla Terra Santa, fu costretto da un fortunale a fare approdo a Taranto, di cui fu vescovo. Il 10 maggio, festività del Patrono, il Santo viene portato per mare dai Tarantini: i fuochi d’artificio e le bancarelle (che buoni i torroni!) fanno il resto.
Non lontano dal duomo, all’estremità meridionale dell’isola, c’è scesa Vasto, una strada in leggera pendenza che degrada dolcemente verso l’attracco dei pescherecci. La toponomastica è in riferimento al Marchese del Vasto, il nostro Marchese, che andò in soccorso dei Tarantini assediati dai Turchi. Il vicino castello, ora sede della Marina Militare, non ha più il torrione del Vasto, abbattuto per esigenze logistiche. Proprio nella scesa Vasto c’è una statua, di fattura moderna, continuamente restaurata ed abbellita (fino a qualche tempo fa era in legno) a ricordo di alcune fanciulle tarantine, all’epoca greche, che, all’arrivo dei Romani conquistatori, si lanciarono dall’alto del tempo dorico, i cui resti sorgono nei pressi: morirono libere. Era il 272 prima di Cristo. Livio Andronico fu portato schiavo a Roma, dove si fece valere diffondendo la cultura greca, mentre Leonida (di Taranto, da non confondersi col connazionale eroe delle Termopili) vagò senza meta scrivendo poesie e rimpiangendo la sua patria, che non rivide mai più.
Il dramma dell’esistenza umana è tutto qui: l’astuzia della ragione dà valenza a entrambi, a due storie antitetiche, quella di Livio e quella di Leonida, l’uno messaggero dell’Ellade in una Roma ancora rozza, l’altro testimone della libertà.
Mi raccomando: "Andronìco", non "Andrònico".

Giacinto Zappacosta

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